A presto
Me ne vado in giro. Al Giro. Per l’Italia, da Cuneo a Bitonto, da Cava de’ Tirrenti a Brunico. Per scoprire facce e pescare storie. Senza andare all’estero, vado altrove. Perché, anche se non sembra, è altrove, il Giro d’Italia, quello che nel mese di maggio per tre settimane in duecento fanno in biciletta, città dopo città, cronometro dopo collina, volata dopo salita, e che altri milletrecento fanno in macchina, in moto, in pullman, in elicottero al seguito.
Vado a scrivere e a viaggiare, due azioni, due infiniti che appartengono alla stesso movimento, allo stesso sentimento, lo stesso sentire. Vado a conoscere il territorio e l’umanità che lo abita, prendendo appunti per raccontare. Ecco: che cosa fa lei nella vita? Prendo appunti. Poi torno. Raccontare, in fondo, è ritornare.
Quando ho fatto per la prima volta il Giro d’Italia, cinque anni or sono, è stata un’esperienza indimenticabile, da romanzo. E ho trovato degli amici. Mi rimetto in viaggio con loro. Amici e libri, poter andare, buon cibo e vino, l’idea di raccontare, vedere, guardare: che cosa c’è di meglio? Parto con due libri in valigia, due storie di uomini che sono anche storie d’Italia: Meo volava. Avventure e sventure di Venturelli di Marco Pastonesi (Iaccheri Editore), e Livio Berruti. Il romanzo di un campione e del suo tempo di Claudio Gregori (Vallardi). Sono la storia di un glorioso fallito e di un glorioso vincente: un corridore ciclista, possibile erede di Coppi, che spreca la vita vivendola, non correndola, e un campione assoluto di velocità e umanità, medaglia d’oro alle Olimpiadi di Roma del 1960 nei 200 piani. Due personaggi di talento raccontati da due scrittori di talento, generosi giornalisti, storici suiveur e narratori del Giro. Due amici di penna e di viaggio da cui imparare. Magari, quando torno, a inizio estate, è di loro che racconto per primi. Buone letture, intanto, e buon Giro.
Perché scrivere
Ho finito di leggere i Sillabari di Parise, e mi sembrava di stare con una vecchia zia all’ora del tè. Ho cominciato a leggere il primo volume della Memoria del fuoco di Galeano e mi sembra di stare nel centro del mondo, alle radici del mondo e della letteratura.
Perché scrivi? Perché scrivi tu che leggi, ché certamente sei uno o una che scrive, se leggi queste righe. Scrivi perché sei uno o una che legge, questo credo. Uno scrive perché attraverso la scrittura rilegge il mondo e, dentro il mondo, anche un po’ di quello che egli stesso è.
La parola è sempre per metà di chi scrive e per metà di chi legge. Le frasi contenute nei libri sono pietre gettate nell’animo del lettore; il diametro delle onde che creano dipende dalle dimensioni dello stagno. Per queste ragioni penso che la letteratura appartenga più alla lettura che alla scrittura. Se appartenesse di più alla scrittura, si chiamerebbe scritteratura. È solo perché appartiene alla lettura - al lato paziente di noi - che si può credere nella letteratura.
Io credo nel valore della letteratura, credo nel volere della letteratura e anche nel volare. Vola vuole e vale, la letteratura. Fa volere, volare e dà valore, valori, perché è movimento, viaggio, cambiamento. Di sguardo e di posizione. Di natura. Credo sia potenza, non potere: energia. E credo possa cambiare il mondo, il piccolo mondo interiore di chi la pratica, cioè di chi legge e di chi scrive.
Chi oggi scrive, chi agisce con lo scrivere e con il leggere, si trova al fronte. Al fronte della realtà. Di fronte alla realtà. In trincea nella battaglia fra reale e immaginario. Spesso si deve difendere questo da quello per vincere l’emarginazione. Nella realtà e nella cronaca si è emarginati, non nella letteratura.
Il racconto perfetto
In difesa del privato
È solo uno sfogo, una sensazione, non un pensiero, uno scatto d’umore: sono stufo dei controlli. Telecamere, carta di credito, telefonini, caselli autostradali, anche ztl, tutto diventa un modo per controllarti. Tutto segnala dove sei.
Ma se non hai nulla da nascondere..., dice. Me ho da nascondere, me. Ho da preservare il mio spazio e il mio tempo, la mia anima e i miei cazzi.
Ho letto le prime venti pagine di un libro scritto da un sociologo tedesco, Wolfgang Sofsky, e pubblicato da Einaudi: In difesa del privato. Dove si dice che il cittadino rinuncia “senza esitazioni a essere inosservato, anonimo, inaccessibile. Non avverte la perdita della libertà personale. Nemmeno immagina che ci sia qualcosa da difendere. È troppo poco geloso della propria sfera privata per preservarla a costo di altri vantaggi”.
Se non venissero cancellati certi dati e certe tracce, nota Sofsky, gli uomini sarebbero reclusi nel carcere della loro storia. Anche per questo uno scrive: per non rimanere imprigionato nella propria storia. Ci pensa il potere a rinchiuderti lì dentro.
Per sua natura il potere è egemonico. Crea conformismo e obbedienza. Punta a disporre di sudditi, non di cittadini. Occupa spazio e tempo. Il mio e il tuo tempo. Che cosa facciamo noi per contrastare tutto questo? Poco. Anzi, giulivamente lo favoriamo. È così che dura il potere. Più controlla, più si espande. Più si espande, più occupa. “Fra le poche conquiste della civiltà moderna rientra la pretesa che lo stato venga circoscritto nei propri limiti e che la società sia protetta dalle prevaricazioni della politica. I limiti del privato sono i limiti del politico. La difesa del privato è la più efficace protesta dell’individuo contro l’esiziale universalismo del potere” avverte in copertina il libro. Ecco. Contemperare questo con l’idea di comunità è la scommessa. Ma chi ha ancora la forza di giocarla?
Una buona Pasqua
Si intitola Giuro a te che vieni da lontano. È una poesia. Ogni tanto una poesia ci vuole, per piantarsi bene nella realtà e rispondere alle sue sollecitazioni. Per reagire. Per agire. Si può considerare una poesia sull’altro. Si può anche considerare una poesia sulla rappresentazione di sé. È un’epifania. È una pasqua. Una buona Pasqua per tutti.
"Ora che siamo spenti d’illusioni e la voglia si riconosce in darsena per i nostri segreti e la volta notturna tace a urli intermittenti, credimi, forestiero, che sei giunto ad ascoltare fino all’ultima parola,
io li ho veduti più di una volta all’inizio di ogni stagione disboscare i cieli con lo sguardo, incollarli al blu, netti, senza colpi di tosse
e poi scendere e salire e disfare fatiche e attese e in ogni angolo di pelle conservare la sufficienza di tutto il creato.
Di spazio riempivano le loro figure, di astri, di lagune, e ugualmente rimanevano leggeri. Potevi osservare in ciascuno la stessa incalcolabile misura del tempo.
Erano atomi in formazione.
Ora che i segni del nostro passaggio sono vapore, e tutto quanto è scritto abita in volti di lentiggini, e rotazioni su rotazioni niente hanno insegnato a proposito del futuro,
giuro a te che vieni da lontano e irrompi all’improvviso e in nostra compagnia rimani per qualche ora, per qualche miraggio, ancora li scorgo avanzare e volgere il capo cercando dal freddo riparo e scuotersi,
mai ho conosciuto solitudini più vaste e folgoranti dei loro occhi, mai ho pensato che un giorno potessero svanire."
Parole
A proposito dei nostri tempi, del parlarsi addosso e l’un contro l’altro, degli schieramenti armati di verità.
Tutti usano le parole. Loro sono lì, aspettano, e tu le scegli. Pronunciandole, le chiami in campo, le metti in azione. Dovresti farlo con cura, con attenzione, perché dirle e scriverle ha la sua importanza. A volte – non è così raro - le parole, dopo che tu le hai usate, usano te. Facendolo, ti snudano, ti sbugiardano, minano il piccolo piedistallo che ti sei costruito.
Pensavo a questo, considerando l’abuso, lo strabuso che delle parole si fa, e come esse si vendichino seppellendoti sotto una coltre di chiacchiere, girando a vuoto, perdendo senso e direzione, facendolo perdere a te. Chi con le parole, la memoria, la ragione e i sentimenti lavora, chi ne ha a cuore le sorti, deve essere preciso. Deve usare parole precise. Deve incarnare le parole che dice. La precisione appartiene all’onestà.
Accade spesso, invece, che si usino parole per non dire ciò che esse dicono, ma per rinviare ad altro, sviare, evocare un pregiudizio, confermare comode opinioni consolidate. Luoghi comuni e slogan sono preferiti al dubbio e alla messa in discussione. Bisogna portare il dialogo là dove bivacca il monologo.
Il tuo primo compito non è risolvere all’impronta i problemi, ma abitarli e condividerli. Il primo compito è l’ascolto. Nell’ascolto cominciano la condivisione e le soluzioni. Il tuo compito non è la risposta, è ancora la domanda. Si arriva alla risposta insieme, stando nelle parole che si dicono, scegliendole con lealtà. Le parole sono leali. Le parole hanno le ali, volano. Sei tu che le zavorri, usandole come strilli di giornale, urli di propaganda, bavagli. Impedisci loro di raccontare. Di essere.
Il capo del governo
Riceviamo e volentieri pubblichiamo.
“Il capo del Governo si macchiò ripetutamente durante la sua carriera di delitti che, al cospetto di un popolo onesto, gli avrebbero meritato la condanna, la vergogna e la privazione di ogni autorità di governo. Perché il popolo tollerò e addirittura applaudì questi crimini?
Una parte per insensibilità morale, una parte per astuzia, una parte per interesse e tornaconto personale. La maggioranza si rendeva naturalmente conto delle sue attività criminali, ma preferiva dare il suo voto al forte piuttosto che al giusto. Purtroppo il popolo italiano, se deve scegliere tra il dovere e il tornaconto, pur conoscendo quale sarebbe il suo dovere, sceglie sempre il tornaconto.
Così un uomo mediocre, grossolano, di eloquenza volgare ma di facile effetto, è un perfetto esemplare dei suoi contemporanei. Presso un popolo onesto, sarebbe stato tutt'al più il leader di un partito di modesto seguito, un personaggio un po' ridicolo per le sue maniere, i suoi atteggiamenti, le sue manie di grandezza, offensivo per il buon senso della gente e causa del suo stile enfatico e impudico. In Italia è diventato il capo del governo.
È difficile trovare un più completo esempio italiano. Ammiratore della forza, venale, corruttibile e corrotto, cattolico senza credere in Dio, presuntuoso, vanitoso, fintamente bonario, buon padre di famiglia ma con numerose amanti, si serve di coloro che disprezza, si circonda di disonesti, di bugiardi, di inetti, di profittatori; mimo abile, e tale da fare effetto su un pubblico volgare, ma, come ogni mimo, senza un proprio carattere, si immagina sempre di essere il personaggio che vuole rappresentare”.
Mi è arrivata in forma di e-mail. Ma dal lontano 1945. L’autrice è Elsa Morante, che fra l’altro ha scritto L’isola di Arturo e La Storia. Parlava di Mussolini, lei.
Le donne e le case
Questo non è Kafka, purtroppo, sono io, e pazienza - uno vorrebbe toglierselo di dosso, questo io, almeno quando scrive, essere già gli altri che leggono, essere tu. Comunque. Nella settimana dell’8 marzo - auguri, perché non sia soltanto un giorno, ma possa essere sempre; può accadere, no?, girando l’8 di novanta gradi, per esempio, mettendolo orizzontale, così ∞, puoi pensare all’infinito, è il simbolo dell’infinito, è il per sempre...
Nella settimana dell’8 marzo, dicevo, la settimana della prima donna che conquista l’Oscar come miglior regista, Kathryn Bigelow con The Hurt Locker, recupero qualche riga scritta l’anno scorso in un romanzo. C’è un vecchio comandante di navi a cena con un giovane fotografo. Il comandante si chiama Cindro Ferretti, è un triestino. Damir Babic, il fotografo, è di Sarajevo. Si trovano in Sicilia, una sera di novembre, verso Sciacca. Bevono e mangiano. Si raccontano. A un certo punto il vecchio comandante, parlando delle navi, dice che passano, nel senso che invecchiano, finiscono. E sai perché passano?, chiede. Il giovane capisce che non deve rispondere, ascolta. “Perché sono nate per gli uomini – attacca Ferretti. Invece le case, che nascono per le donne, non passano, le devi buttare giù. Se fosse per loro, non passerebbero mai. Le donne tengono le cose, le custodiscono, gli continuano la vita. Gli uomini le usano, le consumano, per questo passano. Le case nascono per impedire alle donne di spostarsi, di fare le nomadi. Dài alle donne un luogo di cui occuparsi, invece di lasciarle libere in modo che abbiano tutto lo spazio a disposizione. Capito lo scambio? Un luogo al posto dello spazio. Una prigione, magari dorata, invece di tutta la Terra. La casa è una punizione preventiva per l’adulterio, un tentativo di evitarlo. Comunque, ti punisco: stai chiusa lì tu”.
I passanti
Questo non sono io, questo è Franz Kafka, che fotografa una condizione molto attuale. Se non proprio un sentimento, mi sembra una sensazione piuttosto diffusa ai nostri tempi, quasi divorante, qualcosa che bascula fra incertezza e inadeguatezza, mezza e mezza.
È un brevissimo racconto. Mi dà l’idea di un’immagine in movimento (questo sono i racconti migliori: immagini che si muovono in noi, si commuovono con noi e ci inducono al movimento). Può funzionare come soggetto di un cortometraggio. S’intitola I passanti. Sono poche righe che a me ricordano il presente in cui viviamo. Un presente imbarazzante, a cui non bisogna arrendersi.
Scrive Kafka: "Quando si passeggia di notte su una strada e un uomo, che si può già scorgere di lontano – perché la strada è in salita e c’è la luna piena -, ci viene incontro correndo, noi non lo acchiapperemo, anche se è debole e cencioso, anche se un altro uomo lo insegue gridando: lo lasceremo proseguire nella sua corsa – poiché è notte e non è colpa nostra se la strada che si srotola dinanzi a noi è in salita e c’è la luna piena; può darsi, poi, che i due si rincorrano per divertirsi; forse entrambi inseguono un terzo; forse il primo viene inseguito pur essendo innocente; forse il secondo ha intenzioni omicide e noi diverremmo complici di un assassinio; forse i due si ignorano a vicenda e ciascuno di loro corre per conto proprio verso il suo letto; forse sono dei nottambuli; forse il primo è armato. E, infine, forse che non ci è concesso di essere stanchi? E non abbiamo bevuto tanto vino? Siamo contenti, finalmente, di non scorgere più nemmeno il secondo".
Appartenenze
E allora uno sceglie e prova a dire non appartengo. A scatola chiusa non appartengo a niente. Fuggi all’appartenenza opponendoti con un preferisco di no. Essendo cosciente dei tuoi limiti, magari scegli il condizionale: preferirei di no. E poi, docilmente, ma in modo irremovibile, ti comporti di conseguenza. Come Bartleby, l’ostinato, temerario, rivoluzionario personaggio di Herman Melville.
Preferirei non appartenere a questa cosa che ricorda il Colosseo. Passano le epoche, cambiano anche molto, ma ciascuna si ritrova il suo Colosseo, con quello che ci sta dentro e attorno. Non mutano i comportamenti, nemmeno l’atmosfera. È come se scorgessi l’imperatore che contempla i suoi sudditi per vedere il pollice verso o rivolto in alto, così l’illusione è che possa decidere secondo il volere del popolo il destino dei gladiatori, servi anche loro, nel senso che servono all’esercizio del potere. Sanremo è il Colosseo, Amici è il Colosseo, il televoto è il Colosseo: spettacoli e meccanismi che riducono il popolo a popò.
A questo baraccone, a questo Colosseo, questo popolo, questa popò non vuoi appartenere, non è la tua parte. E invece è questo che chiedono: essere uno di loro. Sei uno di noi, sanciscono. Lo pretendono. Fanno in modo di costringerti.
Se non appartieni a un gruppo, a una parte, a un clan, a una conventicola, a una squadra, a una curva, a un esercito, a una parola d’ordine, non sei nessuno. Essere nessuno, qui sta lo scarto e lo scatto. Nessuno e Bartleby insieme. Bartleby che si oppone con la quieta perentorietà di un no sommesso, agito, non urlato. Ed essere Nessuno, che con intelligenza si sottrae a Polifemo, lo vince e guadagna la sua libertà. Bene, per farne cosa poi?
Punti di vista
È che le cose si possono dire in tre, quattro modi diversi, e si possono anche affrontare in tre, quattro modi diversi, forse anche in sette; mai in un unico modo, e nemmeno in due soltanto, in genere contrapposti: a un modo se ne contrappone un altro, al bianco si contrappone il nero, allo 0 si contrappone l’1, roba da computer, da linguaggio binario, mentre le lingue sono tante, mica una, nemmeno due.
È che le cose si possono vedere in tre, quattro modi diversi, dipende dagli occhiali che usi o non usi, dalla luce, dalla distanza, dall’ambiente, dalla tua energia o stanchezza, dall’attenzione, dalle aspettative. È questione di punti di vista.
È così che le storie si possono raccontare in tre, quattro modi diversi: tutte le storie, la storia del mondo e quella di casa mia; la storia di Creonte e Antigone, lui che vuole far rispettare la legge, lei che vuole seppellire il fratello; la storia della verginità della Madonna e la storia dell’onestà o corruzione di Bertolaso (accusando, assolvendo, attendendo, a seconda del gerundio che usi, scegli un modo di raccontare, a prescindere dalla magistratura, che con i suoi tempi inquisisce e giudica, non racconta).
Pensavo a questo per una storia che ho pescato in un paesino della Francia, curiosa e banale insieme. È una buona storia, con uomini e donne che si danno battaglia e si contrappongono su un sistema di videosorveglianza. In linea di principio sposo la tesi più vicina ai miei convincimenti, alla mia idea di libertà, privacy e democrazia, la sosterrei convinto in qualunque discussione o dibattito. È però, fra il principio e il racconto – nemmeno la realtà, il racconto - in mezzo ci sono gli uomini. Sono loro che devo raccontare, ciascuno con le sue ragioni e responsabilità, visioni e ottusità. Chi racconta non dimentica se stesso, ma i giudizi e i pregiudizi sì. Chi racconta sta dalla parte del racconto. Solo.
Bosch e la nostalgia del futuro
Memoria e oblio
Memoria e oblio si danno la mano. Così deve essere. Non la mano di due che s’incontrano e si salutano: buongiorno, buonasera. Ma la mano di due amici per la vita: un patto d’onore, un’affermazione di lealtà. Come tra due fratelli di sangue. Tra due gemelli. Siamesi. Uno attaccato all’altra. Indissolubili - e che mai nessuna operazione chirurgica provi a separare la sorella buona dal fratello cattivo, la memoria dall’oblio. Divisi, si sviliscono; perdono senso, energia, valore; periscono.
Pensavo questo continuando a leggere del Giorno della Memoria. E pensavo anche: ricordare non serve a evitare che le cose riaccadano, né in guerra, né in amore; avere memoria è alla base dell’apprendimento, è la condizione del sapere e dell’essere comunità. Dovrebbe servire a comportarsi per il meglio, quando le cose ricapitano, quando si ripetono gli errori e gli orrori, i fallimenti, persino le felicità. Dovrebbe aiutare a correggersi, a scegliere il comportamento giusto secondo coscienza e secondo diritto.
Per avere memoria, però, devi frequentare l’oblio. Devi fare spazio in te, devi scegliere, e devi dimenticare: a volte lasciando andare il ricordo, lasciandolo spegnere, a volte gettandolo dietro di te, a volte nutrendoti e digerendolo, fino ad espellerne le scorie. Solo così puoi perdonare, ad esempio.
Come direbbe Groucho Marx: non voglio stare in un posto dove tutti si ricordano tutto di me. È una questione di leggerezza, non di superficialità. La memoria prevede una moria di me, grazie alla quale posso andare avanti. Così come l’oblio prevede la dimenticanza dell’io. Nessuna delle due parole parla degli altri. Agli altri devi pensarci tu, un po’ ricordandotene, un po’ dimenticandoli.
NOTA LIBRI
Per chiuderla con l’elenco. Avendo scelto di seguire i consigli arrivati sul sito, alla mia e-mail e per telefono; avendo deciso di considerare anche gli sconsigli; avendo pensato di alternare romanzi, racconti e saggi; ecco la lista da cui pescherò nei prossimi mesi, con l’idea poi di renderne conto.
Sillabari di Goffredo Parise. Perché ho la fortuna di non averlo ancora letto e sembra imperdibile.
Le parole e le cose di Michel Foucault. Perché contiene mille libri, è una mappa del mondo e del sapere del mondo.
American tabloid di Ellroy. Perché mi sto perdendo l’America e voglio provare a conoscerla, a riconoscerla.
La notte dei calligrafi di Yasmine Ghata. Perché c’è la Turchia, Oriente Occidente, e la calligrafia, ed è sottile.
I signori degli orizzonti di Jason Godwin. Perché ho letto due suoi romanzi e voglio un po’ di sua storia dell’impero ottomano.
Memoria del fuoco di Eduardo Galeano. Perché lo puntavo da un po’: racconti brevi da assaggiare a poco a poco. Monumentale, durerà a lungo
La connessione di tutte le cose di Selden Edwards. Perché mi incuriosiscono le connessioni e i romanzi che attraversano i tempi.
Storia di Neve di Mauro Corona. Perché voglio leggere italiano, Mauro è un amico, so che è un buon romanzo.
Le campane di Bicêtre di Georges Simenon. Perché è Simenon, lesto nello scrivere, lesto da leggere, sempre capace d’incanto.
Ricamare il mondo. Perché mi piacciono le carte geografiche, e questi sono piccoli saggi su donne e mappe.
Tengo in panchina Galimberti, Kundera, Waugh, Thubron e Pamuk – verranno buoni anche loro. Mi accorgo adesso che manca un libro di poesia. Non è possibile. Lo scelgo da solo.
Leggere e vedere
Grazie per l’aiuto. Allora: del leggere e del vedere - il mondo -, è questa la questione. Lo pensavo mentre confrontavo suggerimenti e impressioni e impilavo i dieci libri da affrontare nei prossimi mesi, appena avrò terminato L’uccello che girava le viti del mondo di Murakami e La luce della notte di Pietro Citati. La decisione di far pulizia tra gli scaffali, scegliere alcuni libri di quelli accontonati da troppo tempo e affrontarli con l’idea che la lettura sia una parte di te, non solo un’occupazione per passare il tempo, bene, questa decisione discende anche da una frase che mi ha detto un mese fa un’amica. Parlavamo di Berlusconi, poi di Marrazzo, poi di varie quisquilie che i giornali spacciano per notizie ed eventi.
Lei è docente all’Accademia di Belle Arti dell’Aquila, critica d’arte, curatrice di mostre, scrive bene e bene ragiona, molto attenta alle cose che accadono. Si chiama Lea Mattarella. Hai letto questo sui giornali?, e quest’altro?, e questo ancora?, incalzavo io. Lei argomentava sullo stato dell’informazione. Poi, a un certo punto, mi guarda di tre quarti, sorride e dice: “Io leggo solo romanzi”. Nessuna superiorità, snobismo o furberia nel tono. Lea - che legge solo romanzi e poi, naturalmente, vive - prende dai libri gli occhiali per guardare il mondo. Leggere letteratura, saperi e storie non solo informazioni e cronaca, consente di vedere e cogliere le differenze, le inadeguatezze, le connessioni di tutte le cose del mondo.
Proprio per il titolo, La connessione di tutte le cose di Selden Edwards è uno dei dieci libri che ho scelto. Sono già, più o meno, selezionati anche gli altri nove: rimane un dubbio e mezzo. La prossima volta fisso l’elenco in un post-scriptum qui sopra e comincio ad assumermi le mie responsabilità. Ciò che è scritto nel web è per sempre, dicono, omai.
Leggere i libri accantonati/parte 2
Dunque, sono 141 i libri messi da parte negli ultimi quattro-cinque anni, pensando di leggerli poi. Il poi è arrivato. Ora è il momento della scelta: una settantina li lascio al loro destino di pagine incognite, li archivio pressoché definitivamente; per una quarantina prolungo l’attesa; i restanti, quelli che conservano il fascino di quando li ho comprati, li affronto. A poco a poco.
Lascio qui una rosa e nei prossimi giorni, con l’aiuto di chi vorrà, scelgo i dieci titoli con cui giocare fino all’estate. M’incoraggia l’idea dell’impegno. Un dovere in piena libertà è un piacere. Già qualcuno mi ha detto che accumulare libri, in fondo, è accumulare tempo. Speriamo.
Fra i classici che non ho mai letto: Il milione di Polo, Le parole e le cose di Foucault, L’adolescente di Dostoevskij, American tabloid di Ellroy.
Fra gli ultimi acquisti: Un incontro di Kundera, Sillabari di Parise, Tre donne di Musil, Ricamare il mondo di vari autori, I miti del nostro tempo di Galimberti.
Fra quelli che attendono da più anni: Alla ricerca del libro perduto di Gingerich, Vivere in nicchia, pensare globale di Sertorio, Il mio nome è rosso di Pamuk, Solomon Gursky è stato qui di Richler, L’irrealtà del tempo di McTaggart.
Fra quelli che considero di viaggio: Esploratori di Fernandez-Armesto, I signori degli orizzonti di Goodwin, Quando viaggiare era un piacere di Waugh, Ombre sulla via della seta di Thubron, Maximum City di Mehta, Memoria del fuoco di Galeano.
Fra i romanzi: Eredi della sconfitta di Desai, La notte dei calligrafi di Ghata, Il ragazzo che amava Shakespeare di Smith, La fortezza di Hasz, Storia di neve di Corona, La regina degli scacchi di Tevis, Le campane di Bicêtre di Simenon, La fine del mondo e il paese delle meraviglie di Murakami, La connessione di tutte le cose di Edwards.
Sembra facile scegliere, ma è sempre una perdita, una rinuncia.