Fare parte di una nazione significa condividere un tempo, oltre che uno spazio. Pochi lo sanno, ma quando nel 1861 l'Italia diventò unita, ogni città e paese aveva la propria ora: ecco perché gli orologi vennero sincronizzati
di Peppino Ortoleva
Nella notte precedente l'ultima domenica di marzo, tutti regoleremo i nostri orologi, portandoli avanti di un'ora. E' un gesto ormai abituale, anche se non al punto da non farci più caso: dopo tutto, vista la quantità di orologi e display di cui ormai tutti disponiamo, in casa, al polso, in automobile, l'atto di regolare l'ora richiede un po' di tempo e qualche fatica, che molti trovano noiosa, come l'altra, simmetrica, che si compie l'ultima domenica di ottobre. Ma è una scadenza ormai nota, che suscita al massimo qualche lieve fastidio.
Ben diversamente andò quando nel 1966 in Italia venne introdotta, o più precisamente re-introdotta, l'ora legale. Molte furono allora le polemiche, e la nuova ora venne contrapposta a “ora solare”, da qualcuno in modo neutro ma da altri in tono acceso. La nuova ora, si diceva, era una rottura delle leggi della natura, come se a differenza dell'ora estiva quella invernale venisse davvero dettata dal sole e dai movimenti che la terra compie attorno alla stella. La verità è che l'ora dei nostri orologi è sempre un'ora “legale”, fissata da convenzioni e regolamenti. La verità è che la storia dell'Italia come nazione una e indivisibile è stata accompagnata fin dalla sua origine, anzi da qualche anno prima, da interventi di sincronizzazione del tempo: perché un paese è veramente unito non solo se ha un unico territorio e confini definiti, ma anche se si muove all'unisono. La verità è che l'Italia gode di un'ora unica, artificiale, “legale”, da meno di centocinquant'anni, esattamente dal 1866; e sarebbe rimasta, ancora per un quarto di secolo, unica solo per l'Italia continentale: come quando la pubblicità Aiazzone diceva “in tutt'Italia. E isole”.
E' abbastanza facile stabilire un'ora unica per un villaggio e per la zona circostante. Ci pensa l'orologio del campanile, ci pensano le campane, che propagandosi in uno “spazio uditivo” come dice lo storico francese Alain Corbin, spazio fatto della comunità parrocchiale e delle campagne intorno, scandiscono un ritmo unico, capace di regolare la vita di tutta una collettività. E' un'ora che, per secoli, è stata davvero, quella sì, regolata dal sole; un'ora definita in modo diverso da quello, centrato sulla mezzanotte come ora zero e sul mezzogiorno come ore dodici, a cui siamo ormai abituati. Manzoni, per esempio, nei Promessi sposi, parla delle campane che scoccano le ventiquattro per dirci che si era all'imbrunire. La giornata era già divisa in ventiquattro ore, dall'antichità, ma queste si contavano da un tramonto a quello successivo: l'una era la prima ora di notte. Evidentemente, ogni villaggio aveva la sua ora, ogni campanile si regolava diversamente. Quello che contava era che si sentissero uniti, e sincronizzati, i parrocchiani e i paesani. Un richiamo che a suo modo faceva legge: fissava l'ora delle preghiere, chiamava a raccolta, percorreva i dintorni ricordando anche ai non religiosi che il tempo passava.
Il tempo di un campanile poteva bastare per un territorio ristretto come quello di un villaggio, e non nasceva nessun particolare problema se quel tempo non corrispondeva al secondo al tempo di un altro villaggio, fosse pure quello accanto. Il tempo “solare” di un campanile aveva anche un notevole margine di tolleranza per le variazioni stagionali, per cui la durata delle ore poteva subire cambiamenti nei diversi periodi dell'anno. Del resto, meglio se corrispondeva con la massima esattezza ai momenti e ai ritmi del sole e della vita dei campi.
In città, però, il discorso è diverso, almeno a partire dall'età dell'industrializzazione, perché in questo caso abbiamo una collettività, attraversata da mezzi pubblici che devono essere almeno un po' puntuali (prima gli omnibus, poi le tranvie), animata da industrie che devono coordinare il lavoro degli uomini con quelli delle macchine (ed esigono la puntualità dei lavoratori). Una collettività che continua a espandersi travolgendo le antiche distinzioni di quartiere e ha bisogno di una sincronizzazione che va oltre il tempo dei singoli campanili e delle singole parrocchie. Inoltre, la nuova economia industriale richiedeva quello che è stato definito il passaggio “dal mondo del pressappoco all'universo della precisione”, cosa che in termini di tempo significava la necessità di una misura delle ore stabile per tutto l'anno, così come in termini di spazio si stava imponendo a partire dalla Francia il sistema metrico decimale.
Così, nelle maggiori città venne man mano adottato il “tempo medio”, un'ora unitaria per tutti i quartieri, un'ora di durata stabile per tutto l'anno. In Italia il tempo medio arrivò con notevole ritardo rispetto ad altri paesi europei: a Ginevra (non a caso, era la città degli orologiai!) venne introdotto nel 1780, a Londra dodici anni dopo, a Parigi nel 1816. La prima città italiana ad adottarlo sarà poi Torino nel 1852, seguita da Bologna nel 1858, per Milano bisognerà aspettare il 1860. Erano scelte più municipali che statali: Bologna per esempio si comporta in modo del tutto diverso da Roma, eppure è ancora parte dello stato pontificio. Sono le esigenze della città industriale che premono.
Alla nuova Italia, però, il tempo medio delle singole città non basta. Il 22 settembre 1866 Vittorio Emanuele II vara un Regio Decreto: “Il servizio dei convogli nelle ferrovie, quello dei telegrafi, delle poste, delle messaggerie e dei piroscafi postali nelle Provincie Continentali del Regno d'Italia, verrà regolato col tempo medio di Roma a datare dal giorno in cui sarà attivato l'orario delle strade ferrate per la prossima stagione invernale 1866 - 1867. Nelle isole di Sicilia e Sardegna i servizi predetti saranno regolati da un meridiano preso sul luogo delle rispettive città di Palermo e di Cagliari”.
Non è il caso di cadere nella nostalgia, ma certo la normativa del tempo aveva il pregio della chiarezza. Dall'ora unica cittadina all'ora unica nazionale. C'erano molti motivi per questa scelta. Non è un caso che si faccia riferimento alle ferrovie e ai telegrafi, prima di tutto. Da una parte, il nuovo mezzo di comunicazione, il telegrafo appunto, atto di nascita dell'”uomo elettrico” secondo alcuni teorici, ha reso possibile la simultaneità che prima era semplicemente inconcepibile. A questo punto è concretamente attuabile lo scambio di messaggi anche tra località lontane, in tempo reale. D'altra parte, sulla rete ferroviaria il mondo del pressappoco non è solo inadeguato: è potenzialmente letale. Se i treni viaggiassero “a occhio” quanti incidenti sarebbero inevitabili. Il tempo di passaggio dei veicoli dev'essere preciso, ogni ritardo dev'essere comunicato tempestivamente: il telegrafo certo lo rende possibile, ma a che serve il telegrafo se a un capo e all'altro della rete gli orologi non danno lo stesso tempo? Fino al 1866 erano state in vigore ben cinque diverse ore ferroviarie, cosa possibile perché non esisteva una rete unitaria ma cinque reti differenti. Con l'avvio dell'unificazione delle reti (a eccezione di quella siciliana) l'unificazione delle ore era un'esigenza urgente.
Nel neonato Regno d'Italia, comunque, l'adozione di un'ora unica risponde anche a un'altra funzione, meno pratica e più decisamente simbolica. Stabilendo un'ora unica per Torino e per Ancona, per Genova e per Lecce, nonostante l'oggettiva differenza degli orari reali di alba e tramonto, dovuti alle differenze di latitudine e longitudine, si sottolinea che l'unità del paese prevale sulla geografia. L'ora legale ha la meglio su tutti i campanili. Tanto più che si fissa come ora nazionale quella di una capitale che tale ancora non è: Roma, il meridiano di Monte Mario, adottato come riferimento sia dalla città di Roma, e dallo stato pontificio nella sua interezza, sia dal giovane Regno. Divisi su tutto, lo stato del Papa e quello italiano, erano sincronizzati sull'ora. In realtà, la scelta di Roma non è solo politica; è perfettamente razionale. Il meridiano di Monte Mario divide il paese con relativa precisione.
Il 10 agosto 1893, un nuovo Regio Decreto. A firmarlo, questa volta, è Umberto I, succeduto al padre nel 1878: l’articolo 1 recita che dal novembre 1893 “Il servizio delle strade ferrate in tutto il Regno d'Italia verrà regolato secondo il tempo solare medio del meridiano situato a 15 gradi all'Est di Greenwich, che si denominerà tempo dell'Europa Centrale". Con questa norma, l'Italia entra a far parte di un sistema mondiale di scansione del tempo, quello dei fusi orari. E riunifica ciò che era rimasto diviso: il tempo del continente con quello delle isole.
L'ora fissata nel 1893 verrà poi progressivamente perfezionata con la misurazione sempre più raffinata che dal 1935 venne affidata all'Istituto Elettrotecnico Nazionale Galileo Ferraris, è l'ora a cui gli italiani si adegueranno nella vita. Una sincronizzazione resa possibile dallo sviluppo dei media simultanei, a cominciare dal segnale orario radiofonico e telefonico, poi televisivo. Il risveglio di una città nel Novecento è il mix delle sirene e delle sveglie, dei richiami alla puntualità della persona e della famiglia e ai tempi collettivi del lavoro. Un oggetto odiato e indispensabile, come segnalava Domenico Modugno agli inizi della sua straordinaria carriera, nel 1954.
Iu tegnu na
sveglietta ca' quannu me sona fa drin drin
Iu tegnu na
sveglietta ca' quannu camina fa tic tac
Un'ora a questo punto del tutto artificializzata come lo era la vita di tutti. L'ora legale, già sperimentata in tempo di guerra e dopoguerra, prima tra il 1916 e il 1920, poi tra il 1942 e il 1948, torna definitivamente nel 1966. Dal 1996, ferma restando la differenza tra l'ora occidentale e l'ora centrale, il tempo legale ha inizio e fine lo stesso giorno o meglio la stessa notte in tutti i paesi dell'Unione Europea. A questo punto, la sincronizzazione, per quanto possibile, non riguarda solo una nazione, riguarda un'entità sovrannazionale di cui siamo tutti invitati, con qualche fatica, a sentirci cittadini.
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L'ORA IN ITALIA
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