Tuona per qualche ora l’allarme sul web. È giallo e la fantasia corre alla ricerca di indizi, di tracce sulla Carta e il Territorio e, a chi ha...
di Gian Luca Favetto
Buoni propositi: leggere i libri accantonati / parte 1
Con l'inizio dell’anno, fra le tante ansie camuffate da progetti, mi prende quella dei libri. Comincia prima di Natale, mentre in libreria scelgo i regali: compro per gli amici e compro per me; e i libri per me, li metto da parte. Capita anche in altri periodi dell’anno, in verità, e non solo con i libri che compro, anche con quelli che mi regalano.
E così, all’inizio di ogni anno, faccio i buoni propositi di lettura: metto in fila i titoli che vorrei leggere nei mesi successivi. È accaduto pure l’altra settimana. Ma ormai mi conosco, sono un naufrago in mezzo ai miei libri. Ho perso il ritmo e ho accumulato un ritardo spaventoso. Parlo dei titoli che accantoni per i periodi buoni, quelli che incuriosiscono, ma non hai tempo o voglia di leggere subito.
Lo facevo anche con gli articoli: ritagliavo e accumulavo per il tempo a venire. Loro ingiallivano e io li dimenticavo. Quelli di quando avevo venti e trent’anni ci sono ancora tutti: un foglio sull’altro compongono una mezza dozzina di pile sui cinquanta centimetri. Intonsi. Incartapecoriti. Da una decina d’anni, se va bene, ritaglio un articolo al mese. Trovo il tempo di leggerlo, poi lo butto, spesso insoddisfatto.
Ma come si fa con i libri in attesa? Il 2 gennaio li ho contati. Li tengo separati dagli altri su tre scaffali in sala e su due ripiani in camera. Sono 141. Cambiali con la promessa leggerò.
Anche quest’anno ho fatto il mio buon proposito, che ora però è un vero progetto. La prossima volta lo metto nero su bianco qui, così mi prendo un impegno con qualcuno che non sia io, magari con il Giudizio Universale tutto. Con la parola scritta mi vincolo da solo, ma in pubblico. È un promemoria che ho bisogno di condividere. So di molti nella mia situazione. Ci si può aiutare. Forse è una sciocchezza, ma ci provo. Spero di essere aiutato.
Inserito da Gian Luca Favetto - 11 gennaio, 2010 - 14:37
di Gian Luca Favetto
Il canto delle spose, film che turba
Bella scoperta di fine anno. Un film che parla alla parte segreta degli uomini, al loro lato femminile. Da sentire: arriva alla pelle, prima che agli occhi e al cervello. È un film di pelle, infatti. Di sguardi e di memoria. Un film di donne: Karin Albou, francese quarantenne di origine algerina, regista e sceneggiatrice; Lizzie Brocheré e Olympe Borval, le due giovani protagoniste.
C’è qualcosa di perturbante ne Il canto delle spose, girato nel 2008, arrivato sugli schermi italiani a metà dicembre dello scorso anno e ancora in programmazione in otto sale. Non è la trama, non è lo sfondo a turbare: Tunisia 1942, occupazione tedesca nella colonia francese, propaganda e rastrellamenti, bombardamenti degli alleati, i mussulmani aizzati contro gli ebrei con cui hanno sempre condiviso mercati, cortili e abitazioni. In questo ambiente e in questo tempo si muovono due sedicenni vicine di casa, amiche dall’infanzia: un’araba, promessa sposa a un cugino che finirà a lavorare per i nazisti, e un’ebrea, studentessa di buon profitto, orfana di padre, costretta a sposare un medico molto più vecchio di lei.
Sono loro il film, corpo e storia, nudità e racconto. La loro complicità, l’appartenenza a un segreto, è il turbamento. Una ha occhi immensi, chiari, vibranti, sempre spalancati; l’altra li ha neri, profondi, ostinatamente mansueti. Gli sguardi di entrambe bruciano. Anche se non si rivolgono a te, seduto in sala, ma si guardano fra loro, guardano ciò che capita intorno, li senti come mani che sfiorano il tuo corpo, toccano la tua pelle. Sembra un racconto delle Mille e una notte. È una storia da Mille e una notte. È Sharazade che racconta. Vale la pena ascoltare. Anche solo in videocassetta o dvd.
Inserito da Gian Luca Favetto - 3 gennaio, 2010 - 22:53
di Gian Luca Favetto
Il clima e Márquez
L’invenzione delle nuvole è una bella frase. Richard Hamblyn ne ha fatto il titolo di un suo libro (Rizzoli, 2001). Sottotitolo: La storia affascinante della nascita della meteorologia. Racconta di Luke Howard, che a inizio Ottocento ha classificato le nuvole. Lo tengo sul comodino da tre anni. Si sta bene in sua compagnia e non è importante sapere come finisce (sono a pagina 307 su 342).
Incuriosisce di più immaginare come finiremo noi con le variazioni climatiche, le emissioni di anidride carbonica, i vertici Onu, gli sconvolgimenti del pianeta, l’aumento della temperatura, l’informazione cocainomane, i soloni che pontificano e i solini che mercificano: non bene, suppongo.
Un’ipotesi di lavoro e d’impegno mi è arrivata in forma di auguri da Maurizio Falghera, editore di audiolibri, persona d’onore e di belle intuizioni: essere nel 2010 come il bimbo di un racconto di Márquez, L’uomo e il mondo. Uno scienziato vuole risolvere i problemi del mondo: calcola, studia, analizza. Un giorno, il figlio di sette anni si propone di aiutarlo. Sta buono lì, dice il padre, mettiti a giocare. Ma il bimbo insiste. Lo scienziato si spazientisce e pensa di distrarlo. Prende una rivista con la mappa del mondo, strappa la pagina, la ritaglia in piccoli pezzi e la dà al figlio con uno scotch. Adesso il mondo è tutto rotto, prova a ricostruirlo, dice rimettendosi al lavoro. Prima di risolvere il rompicapo impiegherà giorni, pensa. Dopo un’ora il bambino lo chiama: ho finito! Impossibile, non sai com’è il mondo, come ci sei riuscito? Papà, spiega il piccolo, non sapevo com’era il mondo, ma quando hai preso la mappa dal giornale ho visto, dietro, la figura di un uomo. Allora ho girato i ritagli e ho cominciato a ricomporre l’uomo, quello sì sapevo com’era fatto. Quando ho sistemato l’uomo, ho girato la pagina e ho visto che avevo sistemato anche il mondo.
Inserito da Gian Luca Favetto - 28 dicembre, 2009 - 10:09
di Gian Luca Favetto
Io e Noi
Se lo guardo, vedo Stanlio e Ollio. Se lo penso, non ho dubbi: è Stanlio e Ollio. Il pronome io. Una coppia comica, non un solitario pieno di sé. Lo sopporto - e mi sopporto - non prendendolo sul serio. In verità, scritto con questi caratteri, non rende l’idea. Ma se lo immagini, se lo pronunci in testa, quella “i” in genere maiuscola (dunque “I”) e quella “o”: sono o non sono lo Smilzo e il Grassone a braccetto, Cric e Croc, Laurel&Hardy in una sintesi esemplare?
È questo il punto di vista che mi rende simpatico l’io. Punto di vista che mi è tornato in mente, quando ho letto il contributo di Anto a ciò che ho scritto il mese scorso sotto il titolo “Il vero ambientalismo”. Citava la nostra società come la società dell’io dove ormai è scomparso il noi. Difficile contraddirla.
Uno dice io quando si pensa uomo solo al comando. E quasi sempre uno pensa di esserlo o aspira a esserlo o trova ingiusto che gli altri non lo ritengano tale. Più difficile il noi, vissuto come negazione dell’io, con quella perentoria “n” iniziale. E invece: certo che è una negazione, la “n” di noi, ma non di io, bensì di oi; dunque, del contrario di io. Una negazione seguita da un contrario può fare un’affermazione: il non oi è un sì io. Il noi diventa il miglior luogo dove possa crescere e dare frutti l’io. Lo suggerisce la lingua, l’italiano, che è il luogo dove abito, che è le mie radici ben più di un pezzo di terra.
Io diffido di chi dice spesso io io io, di chi getta questo raglio d’asino avanti a tutto. Diffido di chi si accomoda in questo pronome e con l’io comincia ogni discorso. Non è un caso che l’abbia scritto troppo, io, in queste righe. Diffido di me.
Io diffido di chi dice spesso io io io, di chi getta questo raglio d’asino avanti a tutto. Diffido di chi si accomoda in questo pronome e con l’io comincia ogni discorso. Non è un caso che l’abbia scritto troppo, io, in queste righe. Diffido di me.
Inserito da Gian Luca Favetto - 18 dicembre, 2009 - 18:46
di Gian Luca Favetto
Una vita chiamata Desiderio
Una mattina, Maria Bruni si sveglia e si accorge di non avere più desideri. Neanche uno. Vuota. È felice, tutto va bene, l’amore, il lavoro, le amicizie – solo che non ha più desideri. Decide di andare a cercarli. Comincia a raccogliere i desideri altrui. Li chiede in giro. Agli amici. Ai conoscenti. Agli sconosciuti. E li scrive. Un po’ li fa suoi.
Poiché Maria Bruni ha la fortuna d’essere un’artista, trasforma questa ricerca in un’opera. Lavora sui simboli dei desideri, sui riti e sulle scaramanzie perché si realizzino. Durante un’intera stagione alleva tarassici come desideri.
L’opera s’intitola Desìderi/ desidèri ed è stata, all’inizio, un’installazione. Ora è anche un diario di viaggio in trentatré mappe: trentatré libri d’artista uno diverso dall’altro, trentatré cataloghi di gesti e racconti.
Sfogliandoli, hai la sensazione che veramente la vita sia desiderio, racconto di un desiderio, raccolto di desideri – con tutto che schiere di illuminati saggi e concreti profittatori, potenti e parassiti, si affannano a sopirli, controllarli, sabotarli, imporli liofilizzati, ridurli a capricci, gonfiarli ad ambizioni.
È siderale invece, il desiderio, crudo come l’universo, e non ha posto se non in te. È l’energia rinnovabile che ti fa muovere, non un optional per le grandi occasioni. È impegno quotidiano, necessità, funzione vitale. Ti appartiene, dice chi sei, ti pronuncia. È carne in te, è te, oppure non è. Essere una cosa sola con te, non mercificabile, non trattabile a parte, è la sua forza e la tua. Ti dà spazio, allarga l’orizzonte, fonda i sentimenti. Senza, sei una macchina, un numero, un prestanome. Uno solo imprestato a un nome.
Inserito da Gian Luca Favetto - 11 dicembre, 2009 - 15:53
di Gian Luca Favetto
La casalinghitudine del film
Parnassus, non trovo la parola. Suona come un’esclamazione: parnassus! Come parbleu, perdinci. Sembra una cosa ed è un’altra. Pare un naso, è una casa. Delle Muse. È poesia, la poesia del cinema. Sarebbe il titolo di un film di Terry Gilliam, uno di quei film che sono cinema. Questo fa Gilliam, di solito: più cinema che film.
Tanto per essere spiccio: il cinema presuppone il movimento, lo impone; il film è un prodotto definito, è consumo. Il cinema è un luogo ed un’azione; il film un oggetto e una confezione: niente di male, ma è una differenza di prospettiva e di ambiente. Il film fa passare il tempo, il cinema lo fa guadagnare.
Il cinema che muove, si muove, sommuove è un fluire, un andare. Andare al cinema, si dice. Appunto, il cinema è quella cosa a cui si va, in cui si va, si entra, come nella testa di Parnassus entrano i personaggi di Gilliam. E lì dentro si scoprono mondi, geografie oltre che storie.
Per il cinema c’è bisogno di uno spazio altro, rispetto al tuo appartamento, alla tua cuccia. Scegli, ti vesti, esci di casa, entri in una sala, affidi il tuo tempo, ti siedi davanti a uno schermo gigante, aspetti l’inizio, condividi le sensazioni, ti dai alle immagini, accogli i personaggi, grandi, finalmente divi – senza potere su di loro.
Tutto ciò che invece arriva sullo schermo di casa, rimpicciolito, a tuo totale servizio, visibile a tuo capriccio, secondo i tuoi tempi, quello non è cinema. Come chiamarlo?
Se uno crede nelle parole, oltre a rispettarle, deve saperle trovare, e inventarne anche di nuove. Ci vorrebbe un nome nuovo, appropriato, per la casalinghitudine dei film. Parnassus, mi manca il neologismo!
Inserito da Gian Luca Favetto - 4 dicembre, 2009 - 12:16
di Gian Luca Favetto
Il vero ambientalismo
Lasciare dire, prima di parlare. Ascoltare e far crescere idee, non solo opinioni. Non ripetere le proprie – di opinioni – per affermarsi. Non rispondere con giudizi scolpiti nella pietra, ma adattarsi a chi si ha di fronte, continuare il suo discorso, riempirlo, perfezionarlo, in modo che non siano monologhi, ma dialoghi, quelli che si fanno. Adoperare i sentimenti invece delle emozioni. Anche in un luogo di piccole trame come questo, che è una finestrella sul mondo.
Lavorare su ciò che altri dicono, mostrano, progettano, e farne memoria. Partendo da un’epigrafe, se così si può chiamare. Da una consapevolezza di quarant’anni fa. Da un’idea di Aurelio Peccei. Da un’associazione ribattezzata Club di Roma. Da un saggio intitolato Rapporto sui limiti della crescita.
Hai un clic a disposizione, usalo su queste parole, e con pazienza scopri, conosci. Ci vuole pazienza per conoscere. E subito ti si spalanca un abisso sul presente. Uno spavento che dice ciò che non siamo: persone capaci di dare futuro a chi viene dopo, uomini che mangiano i figli, il tempo dei figli.
I temi raccolti sono: crescita della popolazione, inquinamento, produzione agricola, esaurimento delle risorse, degradazione dell’ambiente, sicurezza climatica, programmazione familiare. In coda è la questione decisiva. Detto crudo, suona: controllo delle nascite. La vera politica ambientalista è il controllo delle nascite. A livello mondiale. Se non controlli le nascite, qualcuno le controllerà per te. O controllerà le morti. Comunque la si pensi, il primo passo è averne coscienza. Da questa coscienza, da questo baratro, parte lo sguardo sul mondo.
Inserito da Gian Luca Favetto - 27 novembre, 2009 - 16:51