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Ah, la misère


Per una turista europea che si reca in Marocco, avere l'impressione di avere pagato poco ciò che si è comprato dopo ore di contrattazione è senz'altro una delle soddisfazioni maggiori della vacanza. 
Così, arrivata da poco a Rabat, tutta contenta mi porto a casa per cinque euro una collanona di legno di argan, e vado a prendere un caffè per festeggiare l'acquisto. Nel bar ci trovo Mehdi, diciassette anni, marocchino, che si presenta e si complimenta per i miei braccialetti, quelli che ho comprato a Torino per cinquanta centesimi da Said, che ti fa esprimere un desiderio mentre te li annoda. “Puro artigianato italiano”, mi dice.
Chiacchieriamo, lui mi racconta che è fortunato, ha un lavoro di dodici ore al giorno per il quale è pagato cinque euro. “All'ora?”, chiedo io, lui mi guarda come se fossi matta. “In tutto fanno centocinquanta al mese”, mi spiega. Insiste per pagare il caffè, ho letto sulla guida che qui può sembrare scortese rifiutare un'offerta, ma la guida vai a sapere chi l'ha scritta, così insisto, invano.
Gli dico che devo andare in autobus a Beni Mellal, e lui mi accompagna al taxi, allunga una banconota all'autista, specificando che gli sta lasciando una mancia perché mi tratti bene. I miei soldi non li vuole, “Ici en Maroc vous êtes les invitées”. Faccio un rapido calcolo, ha appena speso per me l'equivalente di due giornate e mezza di lavoro, ciò che io guadagno dando quarantacinque minuti di ripetizioni di latino. Prima che io parta ci avvicina un signore, chiedendoci una moneta. Ho letto sulla guida che da queste parti dare offerte potrebbe significare essere inseguiti per ore da mendicanti che cercheranno in tutti i modi di venderti qualcosa, allora mi scuso, non ho nulla. Mehdi lo rincorre e gli lascia una manciata di monete. Poi torna da me, mi sorride, mi apre la porta del taxi e augurandomi buon viaggio sussurra “Ah, la misère”.



Inserito da Gaia Rayneri - 24 febbraio, 2010 - 13:00


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L'unico modo per non lavorare


Una delle prime cose che Marina, la ragazza bielorussa che mi avevano chiesto di ospitare, mi ha detto appena arrivata, era che non faceva la pittrice, ma l’avrebbe fatto volentieri. Nel posto da cui veniva, mi spiegava, ma forse un po’ in tutti, era opinione corrente che il lavoro fosse la parte più importante dell’esistenza. Lei, che girava il mondo con uno zaino, aveva scelto di non avere uno Stato anche per non doversi abituare all’etica della fatica che lì ci avrebbe trovato, perché l’importante per lei era lavorare il meno possibile.
Quando l’ho raggiunta in un bar di Bologna, ultima tappa del suo giro per la città in solitario, l’ho trovata che sorseggiava vino con uno sconosciuto dall’aria imbarazzata. Mi ha sorriso e mi ha detto “Ho appena avuto un rapporto con questo qui nel bagno, ma non è andata molto bene”. Lui l’ha guardata inebetito, mentre io incredula la fissavo: “Lo dico davanti a lui perché è ovvio che ne è consapevole, se avesse voluto sarebbe durato senz’altro di più”.
Prima di tornare a casa, per smaltire col sonno il tasso alcolico della serata, si è fermata a comprarmi un mazzo di rose, “Come mai?”, le ho chiesto, e lei ha risposto “Perché vorrei essere più bisessuale, ma ancora non ci riesco”.
Il giorno dopo, prima di ripartire, mi ha detto “Mi sono accorta di non averti ancora chiesto che cosa fai nella vita”. Io ho risposto che studiavo Lettere, ma che cercavo comunque di avere una vita interessante. “E tu?”. “Faccio la prostituta”, mi ha detto sorridendo, già sulla porta. “Sono fortunata, appartengo a quell’uno percento che lo fa per piacere. È l’unico vero modo per non lavorare.”.


Inserito da Gaia Rayneri - 20 gennaio, 2010 - 15:46


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La vera crisi


La panettiera di quella piccola ridente cittadina della provincia torinese, diceva sempre di essere una che aveva viaggiato molto. Aveva cambiato tre case in cinquant'anni, spiegava, e una volta si era ritrovata persino ad abitare in provincia di Alessandria, cosa rara per quelli della sua generazione.

La panettiera, che era cresciuta cristianamente e aveva il dono della magnanimità, portava spesso ai poverelli qualche pagnotta, la domenica, ma non le focacce avanzate, come a volte avevano osato chiederle, perché erano la specialità locale e a regalarle si sarebbero inflazionate. Andava a messa molto spesso e pagava la sua collaboratrice cinquecento euro al mese, perché non doveva fare troppa strada per arrivare al negozio, e non aveva bisogno di particolari rimborsi spese.
 
Il suo lavoro permetteva alla panettiera di quella ridente cittadina un contatto costante con la gente, e ne aveva viste di cotte e di crude, diceva, per questo non si stupiva mai di niente. Non si era stupita neanche quella volta che, "con infinita faccia di tolla", la sua collaboratrice era andata a chiederle un aumento, perché sapeva che prima o poi sarebbe successo, perché i giovani sono spreconi e ancor più lo sono le ragazze, sempre a desiderare profumi, così che non aveva avuto dubbi a negarglielo a fin di bene.
Quando però, leggendo il giornale locale di quella ridente cittadina, ha scoperto che la sua collaboratrice si era assentata dal lavoro non per malattia, come le aveva comunicato, ma perché aveva passato la notte al fresco dopo essere stata colta a rubare due etti di prosciutto cotto da un grande magazzino, la panettiera ha dovuto cessare la sua attività.
Pare non sia ancora uscita dal repartino psichiatrico dove hanno dovuto accoglierla per lo shock, e l'unica frase che riesce a pronunciare, in continuazione, dicono i pochi che l'hanno rivista, è che "la sola crisi dei nostri giorni è quella dei valori".


Inserito da Gaia Rayneri - 8 gennaio, 2010 - 16:02


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Due personaggi in cerca di editore / seconda parte


Abbiamo parlato qualche giorno fa di Gaia Altieri Rotondi, personaggio di un romanzo inedito che è uscito dalla pagina scritta per tuffarsi nell'oceano del web, e diventare una vera e propria “icona di nuova generazione” (dice l'autrice, che lo sostiene la stampa, sostiene). Ma gli editori, incalliti, continuano a rifiutare Altre cento me, il romanzo-habitat di Gaia, anche se ormai, sostiene l'autrice, avrebbe un successo assicurato, forte di 3000 fans su Facebook, tutti sicuri acquirenti prossimi venturi.
Così si è resa necessaria la discesa in campo di un altro personaggio, che con l'arma della narrazione sconfigga ogni titubanza editoriale. È toccato questa volta a Evelina Calvi, che nel “romanzo” è la psicanalista alla quale la fashion-victim Gaia si rivolge per cambiare vita. La ritroviamo invece qui, in carne e web, nelle pagine di menstyle.it, in veste di consigliera, dispensatrice di saggezza in pillole, portavoce dei problemi di “ogni donna” (l'incubo delle valigie, gli amori, la menopausa... nulla che tenda particolarmente all'universale, o che lasci intravedere anche solo qualche barlume di coscienza di genere).
 
Quest'analista ha però “una marcia in più”: è transessuale. Apprezzabile volontà di dare voce a un mondo sommerso? Tentativo di far uscire dalla marginalità una voce più che mai protagonista dell'attualità politica e giornalistica italiana, che finalmente parli e non lasci semplicemente che le si parli addosso? “No”, risponde fieramente l'autrice in una videointervista su Youtube. “Strategia di marketing. Siccome la rivista per cui scrivo ha un target sia maschile che femminile, abbiamo pensato che l'idea di una psicologa transessuale fosse il modo migliore per far colpo su entrambi”. Poco importa se l'autrice sembra non essersi nemmeno ricordata che in Italia esistono 30mila soggetti transessuali/transgender che potrebbero parlare da sé. Poco importa se la dottoressa Calvi arriva addirittura a parlare con nonchalance di mestruazioni e di menopausa, come se appartenessero al suo vissuto personale. Al mercato piace così, e anche ai futuri acquirenti di questo “capolavoro”. 
 

Riceviamo e pubblichiamo:

 

Alla cortese attenzione del Direttore di Giudizio Universale                               15/02/2010
 
Domanda di rettifica da parte di Stefania Nascimbeni
 
 
 
Gentilissimo Direttore, Sig. Remo Bassetti,
con la presente le richiedo la rettifica di un articolo pubblicato da una sua collaboratrice, Gaia Raynieri, in data 21 dicembre 2009.
 
Ne riprendo alcuni estratti:
 
<<Abbiamo parlato qualche giorno fa di Gaia Altieri Rotondi, personaggio di un romanzo inedito che è uscito dalla pagina scritta per tuffarsi nell'oceano del web, e diventare una vera e propria “icona di nuova generazione” (dice l'autrice, che lo sostiene la stampa, sostiene). Ma gli editori, incalliti, continuano a rifiutare Altre cento me, il romanzo-habitat di Gaia, anche se ormai, sostiene l'autrice, avrebbe un successo assicurato, forte di 3000 fans su Facebook, tutti sicuri acquirenti prossimi venturi.>>
 
Chiarisco subito che l’autrice, Stefania Nascimbeni, io, non sostiene né ha mai sostenuto di avere il sostegno di nessuno, mi scuso per il gioco di parole, bensì di aver riscontrato un grande interesse da parte della stampa, che ha studiato il fenomeno parlandone a sua volta.
A dimostrazione di ciò la mia rassegna. Elenco solo alcune testate che hanno parlato del mio progetto: Ansa, Gente, Glamour, Il Giorno, Sobjective, Cremona On line, Periodicamente, Menstyle.it, Pomeriggio 5 (Mediaset), Protagoniste (Sky 125) e altri siti internet.
Da come la vostra redattrice ha scritto, sembra che io millanti fatti non reali.
 
Non esistono editori incalliti che continuano a rifiutare la pubblicazione del romanzo, tutt’altro, mi stanno contattando nomi accreditati che vorrebbero inserire il mio progetto in un contesto inedito e adeguato alle aspettative che si sono venute a creare sul personaggio di Gaia. Ho dovuto rifiutare diverse proposte perché non erano consone al suo miglior commercio editoriale. E questo dopo attenta e lunga riflessione.
 
Non capisco perché poi si parli al condizionale (è forviante), asserendo che Gaia ‘avrebbe’ 3000 fan nel mondo di Facebook. E’ tutto documentato: 3.500 gli utenti nella sua pagina, 200 i fan del suo fan’s club, altri 200 gli utenti dei suoi gruppi di lettura e circa 8.200 visite nel portale della Dssa Calvi su Menstyle.it, più altre 5.500 nel blog di Gaia su style.it.
Parliamo di 17/18.000 utenti circa, sui quali è stata fatta un’area test: di questi la metà hanno letto sinossi, incipit e alcuni estratti del romanzo e hanno sottoscritto che l’avrebbero letto volentieri.
Perciò, il numero di lettori potrebbe aggirarsi intorno ai 9.000, 9.000 copie vendute alla prima uscita.
Numero che si è notevolmente incrementato rispetto all’intervista fatta da Sobjective che vedete su You Tube, girata nell’aprile del 2009.
L’obiettivo non è affatto diventare ‘famosa’ né ricevere bei vestiti dagli stilisti, come la stessa redattrice scrive in un articolo precedente, ma creare una strategia di mktg non convenzionale in grado di dimostrare all’editore che nonostante il romanzo sia opera di un’esordiente possa avere comunque riscontro e avere un numero di copie potenzialmente già interessate alla vendita.
Vd il discorso dell’area test citato sopra.
Naturalmente l’idea è piaciuta ed è stato automatico essere invitata a delle rassegne.
Vorrei precisare che sono impegnata in cause importanti e che appena posso mi metto a disposizione per associazioni che lavorano su progetti umanitari. In questo senso, sì, uso il personaggio per fare rumore. Non credo sia così da condannare, però, il fine ne giustifica i mezzi.
 
E ancora:
 
<<“No”, risponde fieramente l'autrice in una videointervista su Youtube. “Strategia di marketing. Siccome la rivista per cui scrivo ha un target sia maschile che femminile, abbiamo pensato che l'idea di una psicologa transessuale fosse il modo migliore per far colpo su entrambi”. Poco importa se l'autrice sembra non essersi nemmeno ricordata che in Italia esistono 30mila soggetti transessuali/transgender che potrebbero parlare da sé. Poco importa se la dottoressa Calvi arriva addirittura a parlare con nonchalance di mestruazioni e di menopausa, come se appartenessero al suo vissuto personale. Al mercato piace così, e anche ai futuri acquirenti di questo “capolavoro”.>>
 
Cosa c’entrano i 30.000 transessuali italiani? La Dssa Calvi è solo un personaggio romanzesco, che è piaciuto così tanto alla Direttrice di Menstyle da propormi di creare il suo blog, sì, anche perché perfetto connubio uomo-donna.
Ed è ovvio che parli attraverso al voce della sua creatrice… se no di chi?
Al mercato piace così, e piace ai futuri acquirenti di questo ‘lavoro’ portato avanti con tanta fatica, che merita un po’ più di rispetto da chi non l’ha capito perché non ha saputo documentarsi a dovere.
 
Grazie.
 
Colgo l’occasione per porgerle i miei più cordiali saluti,
 
Stefania Nascimbeni



Inserito da Gaia Rayneri - 21 dicembre, 2009 - 16:59


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Due personaggi in cerca di editore / prima parte


Da qualche anno si è sviluppato, con risultati spesso geniali, il fenomeno delle identità immaginate. Veri e propri tormentoni del web, sono state partorite figure come Serpica Naro, la stilista che tanto parlò di sé fino a riuscire a farsi invitare ad alcune serate scintillanti della moda milanese: altri non era che l'anagramma di San Precario, icona del movimento studentesco e del precariato, diventato donna e brand “autoprodotto”, per “ripensare la produzione di stile oltre la precarietà”, si legge sul suo blog.
È toccato poi ad Anna Adamolo, donna, single, precaria, incazzata: l'abbiamo vista scrivere lettere al Ministero dell'Istruzione, con il tono sicuro di chi sa di essere una persona importante, fino a occupare sul web il posto di Mariastella Gelmini, creando un portale del MIUR per molti aspetti più credibile di quello originale e protetto da copyright. Qualcuno, ovviamente, ha gridato alla bufala: “Non esiste!”. E invece esisteva sì, era anche lei un anagramma, figlia di Onda Anomala, sorella di lettere di Aldo Manona, avversario popolare dei ministri dalla longa manus armata di forbici. Non esisteva secondo la categoria tradizionale dell'identità rigida, personificata: la sua identità era proprio quella di non averne una, di nascere ed essere nutrita dal collettivo, dal molteplice.
 
Da qualche anno, in parallelo, si è sviluppata un'altra tendenza: quella di fare delle narrazioni politiche un prodotto – o una strategia – di marketing (dalle banali magliette di Che Guevara ai vari business delle case discografiche che creano i loro idoli già maledetti dalla nascita). Con la sussunzione delle sottoculture o delle controculture da parte del mercato, si è creato un nuovo tipo di prodotto, per colpire quel target di persone che credono di essere fuori dal sistema dei consumi: “l'alternativo”.
È a metà fra questi due fenomeni che si inserisce Gaia Altieri Rotondi, identità immaginata ma non troppo, per nulla collettiva, sicuramente avvincente, commercialmente grintosa. La sua ideatrice, Stefania Nascimbeni, non sapeva proprio più cosa inventarsi per farsi notare dalle case editrici, che, a detta sua, ancora non hanno colto il potenziale di vendite del suo romanzo inedito, Altre cento me. L'autrice, che anche troppo spesso si confonde col personaggio, afferma di aver racimolato (in veste di Gaia, dal volto stilizzato in bianco e nero) più di 3000 fans su Facebook, è riuscita a farsi invitare a Pomeriggio 5, e sostiene di essere ormai un grande caso mediatico. Alcuni importanti stilisti hanno cominciato a invitare Gaia (nella persona di Stefania) come ragazza immagine per alcuni grandi eventi, e forse era proprio questo l'obiettivo dell'autrice: diventare famosa. Farsi vestire bene dai re e dalle regine della moda che sono gli idoli del suo personaggio.
Poco importa se uno, in genere, i libri li scrive per altre ragioni. Lei è riuscita, in un colpo solo, a diventare la sorella ricca di Serpica Naro, e manca poco perché non si trasformi nella cugina fashion di Melissa P.


Inserito da Gaia Rayneri - 14 dicembre, 2009 - 12:26


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Cambiare aspetto alla pasta


La nonna di Kasia diceva sempre che non esiste miglior medicina dell'aglio. Io, da coinquilina, non mi trovavo così tanto d'accordo, perché vederla passeggiare per il salotto con due spicchi bianchi che le uscivano dal naso come le zanne di un elefante era uno spettacolo a cui ancora non riuscivo ad abituarmi, e spesso desideravo scioglierle un'aspirina nella zuppa, per preservare la sua salute preventivamente.
 
Kasia spiegava sempre che l'Europa occidentale è consumista perché non sa risparmiare, e questo si nota soprattutto dal modo in cui le donne si truccano: perché sprecare litri di mascara ogni giorno, diceva, quando basta semplicemente stenderselo sugli occhi il primo giorno del mese, assicurandosi un delicato alone nero che li abbellirà per gli altri trentuno? Anche la colazione italiana, spiegava Kasia, per il modo in cui era strutturata, non lasciava scorgere nessun segno di conoscenza reale dei meccanismi del corpo: le uniche cose veramente sensate che si potevano mangiare appena svegli, diceva riportando la saggezza della sua nonna-enciclopedia, erano il merluzzo all'olio e la zuppa di pomodoro e cipolla, che avrebbero fornito le giuste energie e aiutato a recuperare la memoria perduta durante la notte.
Quando una sera l'ho trovata in salotto, intenta a condire una pastasciutta con uvetta e porri, ho provato a mettere da parte il disgusto e le ho chiesto: “Saggezza polacca?”. “No”, mi ha risposto seccata: “Volevo fare qualcosa per aumentare la mia apertura mentale. E in Italia l'unico modo per farlo davvero è cambiare aspetto alla pasta”.


Inserito da Gaia Rayneri - 2 dicembre, 2009 - 13:54


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Daniel e Tabita: “Raccontate la nostra Africa”


È appena salita una signora stracarica di borsoni, ha l'aria seccata nel vedere che il regionale delle otto di domenica mattina è ancora più pieno del solito. Daniel e Tabita, congolesi, viaggiano davanti a me, si alzano per cederle il posto, la vecchia tira dritto fingendo di non avere sentito.

A Cuneo forse si accorgono dei goffi sorrisi con cui tento di fare gli onori di casa, per rendere un po' più ospitali questi sedili puzzolenti dell'occidente progredito, e attaccano bottone. Tabita mi invita ai gruppi di discussione su Dio che organizza con le sue amiche, “la cosa più importante della mia nuova vita”. Lusingata, declino cortesemente, spiegando che ho scelto l'altra parrocchia.
Mi chiede di cosa mi occupo, e rispondo “scrittrice” con la sensazione di spararla grossa, di solito opto per “disoccupata”, che è comunque quasi un sinonimo. È a questo punto che gli occhi di Daniel si illuminano: “Da sempre speravo di incontrare uno di voi écrivain, devo dirvi una cosa che non avete ancora capito. Perché perdete il vostro tempo a inventarvi tutte quelle cose di fantasia, quando l'unica cosa che potreste fare per riparare a quanto avete fatto all'Afrique sarebbe raccontare le nostre storie?”.
 
Sorrido, mi sento in colpa, penso a quanto ho studiato sul postcoloniale, alle voci subalterne che devono parlare da sé. Gli dico che potrebbe raccontarla lui, per cinque minuti io provo a convincerlo a diventare scrittore, lui ad arruolarmi con sé come predicatrice della Chiesa Evangelica. Mi dice che in Congo nessuna casa editrice accetta libri scritti da uomini di colore, non vede perché qui dovrebbe essere diverso. “Visto che non sono venuto qui, come dicono, per rubarti il lavoro”, conclude prima di scendere, “l'unica cosa che io posso fare in Italia è cedere il posto, in nome dell'Onnipotente, a vecchine che comunque lo rifiuterebbero. Tu, almeno, raccontagli di me”.


Inserito da Gaia Rayneri - 23 novembre, 2009 - 16:25