La morte a Venezia
Tra le cose che colpivano alla Mostra di Venezia, una è la nostalgia, nei registi americani presenti, più o meno giovani, del cinema nouvelle vague, o del nuovo cinema americano anni Sessanta - Settanta. La voglia di libertà, di creare personaggi sconnessi dal mondo circostante, su tempi dilatati, in posizioni fieramente anti-spettacolari, con una presenza molto sensibile di uno sguardo d’autore.
Somewhere di Sofia Coppola recupera (come già Lost in translation), in maniera elegante e cool, un tipico personaggio da film “modernista” nouvelle vague, che osserva sgomento il mondo intorno a lui, mentre piccole e grandi gag gli ruotano intorno.
Reek’s Cutoff di Kelly Reichardt ricorda i vecchi western “metafisici” anni sessanta di Monte Hellman (a sua volta presente al Lido con un film di coerenza totale rispetto a quarant’anni fa), come La sparatoria o Le colline blu, muti o senza avvenimenti. Qui una famiglia di coloni vaga nel deserto dell’Oregon, senza meta e senza molto da dire, mentre l’obiettivo nega anche la spettacolarità visiva del paesaggio, scegliendo per inquadrarlo non l’immagine panoramica ma un formato piccolo, quadrato, da cinema muto.
Promises written in the water di Vincent Gallo è un film lugubre e auto-riflessivo un po’ petulante, con scene ripetute e inquadrature di dettagli del corpo femminile, e un narcisismo ingenuo che ne fa uno di quei film destinati al massacro da parte di pubblico e critica.
Eppure, questo ritorno alla libertà impossibile dei registi indipendenti di mezzo secolo fa non sembra proiettato in avanti, non dà un senso di libertà, ma di profonda malinconia. I titoli citati sono tutti film di morte, forse inevitabilmente. Nemmeno di angoscia o di crisi, come potevano essere certi noir o western degli anni settanta, con personaggi nevrotici violenti e tempi e visioni che si accavallano; ma proprio di paura e amore della fine. Road to Nowhere, come recita il titolo del film di Monte Hellman.
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