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ritratto di Simone Regazzoni
di Simone Regazzoni

Lost batte Obama


L’otto gennaio 2010, il portavoce del presidente Usa Robert Gibbs si è presentato davanti ai giornalisti annunciando: “Con il suo discorso sullo Stato dell’Unione davanti al congresso, il presidente Barack Obama non metterà in pericolo la messa in onda della prima puntata della sesta e ultima stagione di Lost”. Nei giorni precedenti era sta ventilata l’ipotesi che proprio il 2 febbraio 2010, data di inizio dell’ultima stagione della serie tv Lost, Obama avrebbe occupato gli schermi con suo discorso sullo Stato dell’Unione. Cosa che aveva scatenato le ire dei fan della serie su facebook e twitter.
Il Presidente Usa non ha risposto come avrebbe potuto: ma è solo fiction! Ci sono cose ben più serie e reali come ad esempio la riforma della sanità, e sono quelle di cui parlerò davanti al Congresso anche a costo di far slittare la messa in onda di una fiction tv! No, Obama ha lasciato che il suo portavoce dichiarasse: “Non posso immaginare uno scenario in cui milioni di persone che sperano di rispondere al più presto gli interrogativi posti da Lost siano sopraffatti dal Presidente”. In altri termini: gli interrogativi posti dalla fiction sono più importanti delle parole del presidente. Cosa che a molti potrà sembrare inquietante, ma che dà la precisa misura del potere della fiction e della sua interazione con il reale.
Ma perché la finzione, così inconsistente ed evanescente all’apparenza, avrebbe questa forza di penetrazione nella dura realtà, al punto di poter contrastare il potere del Presidente degli Stati Uniti d’America? Perché non c’è distinzione ontologica netta tra realtà e finzione. Vale a dire: tra ciò che è fiction e ciò che è realtà. Si pensi a che cos’è il potere sovrano di un presidente: come ha scritto Jacques Derrida, si tratta di pura fiction, la fiction che chiamiamo “sovranità”. Ora, la realtà tutta è permeabile alla finzione perché è strutturata attraverso di essa. In questo senso, dunque, l’immagine che è circolata in rete e che ritrae uno a fianco all’altro Barack Obama e Jack Shephard (uno dei protagonisti di Lost) è assolutamente esemplare dell’intreccio di realtà e fiction.



Inserito da Simone Regazzoni - 13 gennaio, 2010 - 12:10


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di Simone Regazzoni

Lo schermo ultra-sottile e l'intellettuale snob


Potenza della tecnologia: la nuova generazione di televisori a schermo ultra-sottile non ci permetterà solo di vedere meglio film e serie tv, ma anche di comprendere più a fondo i limiti dell’orizzonte culturale in cui si muovono ancora certi intellettuali di sinistra. Se c’è un topos duro a morire tra questi intellettuali (che, per nostra fortuna, non rappresentano tutta la sinistra) è quello della contrapposizione tra la realtà dei fatti e la finzione creata da quello strumento diabolico chiamato tv.
E’ una piccola filosofia ingenua che raggiunge l’apice del grottesco quando l’intellettuale di turno pensa di darsi un tono dichiarando di non avere la tv o di non guardarla mai. Facendo così intendere – al di là delle sue intenzioni – di avere scarsissima attenzione per realtà, nella misura in cui la finzione è parte essenziale del tessuto del reale.
 

Ora, il ruolo giocato dalla finzione nella costituzione del reale sarà sempre più potente, perché si stanno progressivamente logorando le soglie simboliche che dovrebbero separare la realtà dalla finzione.
Oggi la soglia simbolica per eccellenza è lo schermo. E’ qui, sullo schermo, che la finzione esercita tutto il suo potere. Più lo schermo si assottiglia, più perde quel potere schermante che doveva garantire l’osservazione in sicurezza. Lo schermo ultra-sottile smette così di essere schermo per diventare una porta, una soglia attraversabile, porosa. Una seconda pelle delle immagini. Lo aveva già visto David Cronenberg in Videodrome, ma purtroppo a sinistra continuiamo a credere di dover parlar bene di pessimi film come Videocracy. Sia benvenuto dunque il televisore ultra-sottile come efficace strumento di autocritica intellettuale.



Inserito da Simone Regazzoni - 18 dicembre, 2009 - 14:11


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L'opera d'arte nell'epoca di Belen Rodriguez


Un recente spot della Tim che ironizza con intelligenza sul mondo dell’arte contemporanea ha sollevato l’indignata reazione di Fulvio Abbate, che sulle pagine de Il Fatto (1 novembre 2009) scrive: “Da qualche giorno uno spot Tim con Belen Rodriguez e Christian De Sica non mi dà pace, inzuppato com’è di una ideologia che viene da lontano, condivisa sia da certe barzellette eponime della Settimana enigmistica sia dai nazisti che in molti casi parlarono, appunto, di entartete-kunst, arte degenerata, cioè”.
Nella sua banalità midcult, la reazione di Abbate di fronte al ritratto di Belen Rodriguez come artista post-dadaista è sintomatica del rimosso che assilla il sistema dell’arte contemporanea (musei, gallerie, esposizioni, collezionisti, artisti) e che si può efficacemente sintetizzare nella formula: “Lo potevo fare anch’io”.

In questo sistema, in cui vige la regola senza regola del “qualsiasi cosa può diventare arte” (anche accendere e spegnere le luci in un museo e, al limite, anche l’opera di Belen presentata nello spot Tim: un cumulo di plastica da imballaggio), è chiaro come “Lo potevo fare anch’io” sia l’unica considerazione teoreticamente rilevante di fronte a un’opera. Perché? Perché solo e unicamente questa considerazione, all’apparenza banale ma difficilmente confutabile, dimostra come a fare la differenza tra arte e non-arte in questo campo non sia la genialità, la creatività o la tecnica dell’artista di turno capace di trasformare la “merda” in opera d’arte (vale a dire in oro), bensì la cornice in cui l’opera (qualsiasi cosa) è inscritta. La cornice può essere un museo, una galleria, un’esposizione, una mostra o una rivista, un catalogo. Qualsiasi cosa prodotta, pensata o creata da chiunque, se inscritta in una di queste cornici, diventa arte. E’ la cornice a produrre opera e artista.
Morale della favola di Belen Rodriguez? E’ sufficiente mettere in discussione il fatto che siano queste le uniche cornici legittime dell’arte perché lo spazio a lei dedicato si ampli. E perché nuovi e inesplorati territori si aprano alla fruizione artistica.



Inserito da Simone Regazzoni - 3 dicembre, 2009 - 14:09


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La parola alle donne


Analizzando la logica del linguaggio ingiurioso, la filosofa femminista Judith Butler ha mostrato tutti i limiti delle strategie di vittimizzazione usate dai soggetti che subiscono ingiurie. Per combattere il linguaggio ingiurioso è più efficace, secondo la Butler, mettere in atto una contro-appropriazione dell’insulto che abbia la forza di rispedirlo al mittente sotto forma differente, producendo così un rovesciamento degli effetti. Il che significa far sì che un termine possa superare la storia ingiuriosa che lo ha generato.
Ora, è di estremo interesse vedere come la strategia prospettata dalla Butler sia stata recentemente messa in atto da due note pornostar. In un’intervista rilasciata a Rolling Stone di ottobre, Sasha Grey, giovane diva del porno statunitense, ha dichiarato: “Voglio dire alle ragazze che il sesso è una cosa sana. Essere una puttana va benissimo. Non bisogna vergognarsi”. Sul Venerdì di Repubblica del 21 novembre, Ovidie Becht, regista e attrice porno che ha fatto della sua attività una forma di attivismo femminista, ha affermato: “Per secoli ci siamo vergognate di amare il sesso, riservato agli uomini, perché noi eravamo romantiche. Invece dobbiamo ribadire che abbiamo un immaginario sessuale ricco. Sì, in un certo senso siamo anche un po’ puttane, e non ce ne vergogniamo affatto”.

Ecco due modalità di riappropriazione dell’insulto sessista “puttana”. Ed ecco una strategia sideralmente distante da quella messa in atto da certo femminismo nostrano sempre pronto a giocare la carta della vittimizzazione. O dell’ingiuria. Le due cose, a quanto pare, non si escludono. Basti pensare all’uso del termine “puttana” fatto da Michela Marzano, filosofa femminista che in questi mesi si è battuta con articoli e appelli in difesa della dignità delle donne. In un libro contro la pornografia edito in Francia (Malaise dans la sexualité. Le piège de la pornographie, 2006), parlando delle donne che si “esaltano” davanti alla pornografia, Michela Marzano scrive: “Amano farsi trattare come oggetti sessuali, come delle ‘puttane’”. E’ la stessa ingiuria che il giovane compagno di Jenna Jameson rivolse alla futura star del porno quando scoprì che, a sua insaputa, aveva iniziato a lavorare nel mondo dell’hard.



Inserito da Simone Regazzoni - 25 novembre, 2009 - 10:49