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INTERVISTA

Parola di Ascanio Celestini

Proprio in questi giorni è alla mostra del cinema di Venezia con il film La pecora nera, applauditissimo. Ma quella del cineasta non è che la sua ultima incarnazione: scrittore, cantautore, documentarista e uomo di teatro, ci racconta quel fascino per la cultura orale che lega insieme tutto il suo lavoro


di Sergio Buttiglieri


Presentato ieri a Venezia dove ha ricevuto un'accoglienza trionfale, il film La pecora Nera (leggi la recensione) è in realtà la rielaborazione di un omonimo spettacolo teatrale sulle istituzioni chiuse - come gli ospedali psichiatrici - che Ascanio Celestini porta in giro per l'Italia e per i festival europei da diversi anni. Abbiamo posto alcune domande a questo antropologo prestato al teatro (e ora anche al cinema) per capire meglio la sua maniera di raccontare le storie.
 
I tuoi monologhi sembrano un’unica immensa frase, senza a capo, e sono pieni di digressioni, quasi fossero figli di un insolito Thomas Bernhard borgataro rivolto all’infinito racconto orale della memoria. 
Si il mio modo di fare teatro è un po’ lo stile del racconto orale. Nel senso che ci racconta la propria storia costruendo tutto sulle digressioni. Perché noi, solitamente, abbiamo in mente l’idea della narrazione scritta, dove si sente il bisogno delle pagine, dei punti, delle virgole, dei punti e virgole, dei grassetti, dei corsivi, di tutta quella differenziazione grafica proprio nella spartizione della parola su un foglio o su uno schermo. 
Invece, nella parola detta c’è qualcosa che è molto più simile alla musica. Nella musica non ci sono punti e virgole, e non per questo c'è un continuo di suono. C'è invece un'alternanza del suono, quello che noi chiamiamo dinamica. E questa dinamica non è costruita su una punteggiatura, ma sulla durata della parola, del suono. Non sul fatto che quella parola termina perché c’è una cesura. Abbiamo la pausa, non abbiamo il punto.
Per me è lavoro, ma la stessa cosa succede nel mio vicino di casa. Solo che il mio vicino di casa di lavoro fa altro. Per me questa cosa deve essere consapevole.
 
celestini.JPGQuando reciti i tuoi incredibili "assoli" sei apparentemente fermo, mentre c’è un grande ritmo nei tuoi micromovimenti. E’ molto interessante osservare la tua precisa gestualità e la tua apparente staticità, le tue pause, che poi danno subito il la ad un altro momento della narrazione. 
La microgestualità è come musica. Uno non la vede: l’ascolta. E dopo un po’ lo spettatore, se non s’annoia, se non si è addormentato, se non è andato via prima, è rimasto perché ha iniziato a vedere lui delle immagini.
Anche in Scemo di Guerra (suo spettacolo teatrale del 2006, ndr) lo spettatore perde completamente il senso del discorso mio e segue un discorso proprio. La parola orale, la parola detta evoca, non descrive, per cui chi ascolta vede delle immagini e segue i propri percorsi. La stessa cosa che faccio io.
 
Chi sono i tuoi riferimenti a teatro? Sei arrivato a farlo per caso o sei sempre stato appassionato di questa forma espressiva?
Io non sono stato sempre appassionato, anzi sono andato a teatro pochissimo. Perché stavo in una borgata dove non esisteva neanche il cinema. L’hanno chiuso mentre ero ragazzino. Il cinema Florida di Via Morena (che è la mia borgata) ha chiuso con l’ultimo film che era I due Figli di Zorro con Franco e Ciccio.
Il teatro che ho visto io non è che mi abbia influenzato dal punto di vista atistico, ma mi ha suggerito che c’era una possibilità di fare un lavoro interessante in quel contesto. Io ero interessato all’antropologia, studiavo lettere con indirizzo etno-antropologico, non mi importava andare a far teatro, mi interessava far ricerca sul campo. Per cui, nel momento in cui ho iniziato a lavorare, facendo un po’ così, come quasi tutta la mia generazione, laboratori, incontri, ad un certo punto c’è stata questa folgorazione: iniziare a lavorare nel teatro. Per me quello è stato lo sbocco naturale degli studi di antropologia. Lavorare sulle fonti orali, che è il centro della ricerca antropologica, e a un certo punto trasformarla in una ricerca sull’oralità del teatro, per me era una cosa assolutamente naturale. L’unico modo per dare senso a quell’oralità lì che altrimenti non aveva più occasioni, luoghi e persone per esprimersi.
 
Cos’è per te la memoria?
Una volta un giornalista mi voleva convincere che ci fosse la memoria divisa in due anche nella lotta partigiana. Io risposi che la memoria non era divisa in due ma che, piuttosto, era divisa in tante persone quante hanno memoria. Non esiste una memoria nazionale e patriottica, per cui bisogna decidere una volta per tutte chi ci aveva ragione, perché non c’importa niente chi ci aveva ragione, ognuno ha le sue proprie memorie.
celestini3.jpgIl qualunquismo è quello che ti porta a dire: "Sì, i partigiani, però pure loro… I fascisti certo erano carogne però, certo, in fondo, anche loro credevano in quello che facevano, erano giovani…". La cosa interessante è che la memoria non recupera una verità nazionale, una verità assoluta. La memoria dà a noi che ascoltiamo il nostro punto di vista.
 
Il racconto della realtà che produce l’attuale televisione, a tuo parere, che tipo di informazione genera nei suoi fruitori? 
Premetto che io la televisione la guardo sempre più raramente. L’oralità televisiva non è che non sia oralità: è oralità che manca completamente di memoria e di prospettiva. E’ questo che la svuota completamente di senso. La televisione, a parte le insite e programmatiche manipolazioni, in quanto telecronaca degli avvenimenti nel momento in cui succedono, diviene assolutamente senza memoria.
Assistendo nello stesso contenitore alla fiction, alla pubblicità, alla cronaca, agli avvenimenti reali e a quelli finti entriamo in una spirale semantica per cui tutto diventa un’unica cosa: né vera né falsa ma televisione



Tags: Ascanio Celestini, cultura orale, intervista, La Pecora Nera, monologo, Scemo di Guerra, Sergio Buttiglieri, teatro, televisione, Venezia 2010,
03 Settembre 2010


giudizio:



5.13
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