... non ci sono più. In American hustle niente è come sembra: David O. Russell torna a dirigere una squadra di attori fenomenali, per un intrigo in stile La stangata, che però non ha tutti gli elementi al posto giusto
di Marinella Doriguzzi Bozzo
New York, Hotel Plaza, 1978: in una delle tante suite esclusive ma frequentate da tutti, un trippone che dovrebbe avere l'incubo degli addominali si preoccupa invece della propria carenza di capelli ed elabora una complessa pettinatura posticcia riportata incollata cotonata laccata, prima di irrompere nel mezzo di un'astrusa scena di corruzione a più interpreti... e il tema è dato: una onnipresente mania tricologica (probabilmente sponsorizzato da L'Oreal) si incarica di sottolineare che niente è come sembra, mentre il riavvolgimento temporale della pellicola riporta al celebre film La stangata (1973), vincitore di ben 7 Oscar. Ora, può facilmente darsi che i tempi fossero più ingenui, ma anche ne La casa dei giochi di dieci anni dopo tutti (compreso lo spettatore) venivano ingannati fino all'ultimo momento, mentre in American hustle il gioco è polimorfo, più sfilacciato, meno scandito, affidato prevalentemente alla seduzione di attori molto bravi, pluricriniti e sempre pieni di bigodini e di stereotipi, nonché delegato ad un marchingegno che si attorciglia su se stesso, per cui tutto torna o niente torna, non importa, tanto nel frattempo si è perso varie volte il filo, il capello, il pelo.
Perché un regista come David O. Russel, che con The fighter e Il lato positivo ha dato prove più convincenti, qui si scarmiglia in troppe direzioni diverse, senza riuscire a tirare suggestivamente le fila di uno spettacolo che soffre di pause, di rabbocchi, di ripetizioni, di tic e diverte meno di quanto potrebbe? Intanto, perché si è preoccupato di reclamizzare che alcuni elementi della trama sono presi da fatti veri, sottolineatura sempre pericolosa in quanto rassicurante alibi di credibilità non solo non richiesto, ma quasi mai onorato; poi perché nei meandri di film di questo tipo in cui il doppio, il triplo, il quadruplo gioco si alternano senza soste, gli elementi fondanti non sono né la probabilità né la verosimiglianza, bensì la coerenza o la rodatissima precisione del meccanismo di prestidigitazione, mentre qui viceversa le colombe si fingono conigli e le donne segate a metà scappano in biancheria non assortita; infine, perché il ritmo è fondamentale e non può essere imbrogliato, mentre i tempi in questo caso talora si accavallano talaltra si sbrodolano e la colonna sonora non ha certo la forza musicale di The entertainer (brano ragtime del 1902, genialmente riadattato sempre per La stangata).
Senza nulla svelare della trama, la sceneggiatura ha messo insieme troppi aspetti: il gioco non è binario, ma c'entrano malfattori di piccolo e grande calibro, forze dell'ordine, politici, mafiosi, con corollari di pettinatissime donne al contorno, ora funzionali, ora no; di questa variegata umanità si è cercato di sottolineare il misto di pochezza, ambizione, cinismo, improvvisazione, vanagloria, secondo una sorta di affresco della modernità, in cui tutte le pulsioni e gli stratagemmi finiscono per essere cose da poveri diavoli patetici, tra solitudini, debolezze, dialettiche stranite, illusioni ed abbagli. L'accennata vena sociale da un lato cerca di ispessirsi proprio nella fisicità quasi esasperata dei protagonisti, dall'altra non solo scomoda la fisiognomica di Lombroso e i pregressi da parvenu di ognuno, ma accenna sentenziosamente sia al meccanismo perverso dell'autoinganno, sia alla facilità con cui la gente quasi pretende di essere truffata, in nome della imperativa realizzazione dei propri deliri mal sognati, come esemplarmente certifica in termini sia di zazzerette catramate che di fraudolenti miraggi anche il nostro ultimo ventennio patrio.
Il film è piaciuto molto, a giudicare dalle stelle e dalle palle che lo hanno addobbato in questi giorni di festa, e infatti è a tratti piacevole e brillante, ma manca totalmente di quella rotondità da moneta nuova che luccicava di perfezione e che oggi si si intristisce in conii imperfetti, ulteriormente enfatizzati da una durata che non sa finire, come nelle serate in cui ci si alza sette volte dal divano, e poi si continua a sostare sulla porta. Sintomo, se non di malessere, almeno di incertezza e disattenzione per gli aurei concetti di scelta, proporzione e misura, che dovrebbero permeare qualsiasi produzione artistica: invece nel cestino di Cappuccetto rosso viene ormai stivato bulimicamente di tutto un po', per l'eventuale soddisfazione del lupo, del cacciatore, della nonna e della bambina, senza che la mamma debba assumersi la responsabilità di armonizzare le vettovaglie.
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AMERICAN HUSTLE, di David O. Russell, Usa 2013, 138 minuti
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