In India funziona da più di un secolo un sistema che porta ai mariti in ufficio il pranzo cucinato dalle mogli. Ma in The Lunchbox un errore di consegna metta in contatto due sconosciuti: sotto la sapiente mano di Ritesh Batra nasce una storia delicata e molto più credibile delle nostre
di Marinella Doriguzzi Bozzo
India, 1880: viene introdotto il Dabbawala System, servizio di ristorazione che ancora oggi si incarica di portare il pranzo cucinato dalle donne sul posto di lavoro dei loro uomini, facendo viaggiare nel più variopinto e accidentato dei modi il cosiddetto tiffin, specie di pietanziera tubolare a scomparti impilati l'uno sull'altro; rifocillati i destinatari, il tiffin vuoto viene riportato a domicilio, per essere riprelevato il mattino dopo, e così via nel tempo, grazie all'uso intensivo di manodopera a bassissimo costo. Famoso per la sua quasi miracolosa sicurezza, il sistema è stato oggetto di studio anche da parte di università illustri, e costituisce un privilegiato elemento di interesse, nonché il pretesto e il filo conduttore del film.
Mumbay, giorni nostri: una macchina da presa che rimarrà sempre nella stessa posizione frontale inquadra una stazione affollata di treni, dei tetti fitti di piccioni, delle strade gremite di persone, il risveglio circolare di una giovane moglie e madre che s'affanna a svolgere in contemporanea parecchi compiti, mentre il marito, come tutti i maschi, opera linearmente, segmento dopo segmento, lasciandola a cucinare per riempire il contenitore, che viene puntualmente preso in carico e poi trasportato lungo sequenze che dipingono bene l'antitesi fra la dignità antica del fare con le mani e l'insignificanza di entità numeriche che sbiadiscono in una massa indistinta.
Se il perfettissimo e primitivo sistema continuasse senza eccezioni, il film sarebbe un affascinante documentario; si trasforma invece in una delicata e pensosa storia d'amore perché, per una volta, il pasto della donna viene recapitato ad un contabile vedovo che sta per andare in pensione. Avvenuto il primo errore, il sistema lo ingloba e lo ripete, e i due cominciano cautamente a scambiarsi piccoli messaggi, che diventano via via più personali, mentre il cibo si fa sempre più amorevole e sontuoso. Si alternano così quadri di massa e ritagli di solitudini speculari, seppur di origini differenti: lui si è progressivamente indurito in una sorta di carapace cristallizzato dalle abitudini; lei è trascurata e tradita, nonostante una pittoresca e invisibile zia che le fa da coscienza, berciando dal piano soprastante e calando dalla finestra un capiente cestino. Forte dell'affidabilità del Dabbawala, la corrispondenza s'infittisce, diventa attesa, fantasia, proiezione, conforto, dubbio, sino all'incognita di un incontro che non si sa se avverrà, perché lui sembra destarsi improvvisamente alla differenza d'età, mentre lei fugge comunque, non solo in nome di un sentimento, ma anche per una meditata ribellione alla continuità di una condizione subalterna, mentre il finale resta poeticamente sospeso.
Tante sono le storie letterarie e cinematografiche che raccontano un percorso d'amore fra due sconosciuti; questa tuttavia si distingue e s'insinua nella memoria per molte particolarità: l'ambientazione densa di un suggestivo realismo locale, eppure lontana da ogni esotismo bollywoodiano; il continuo contrappunto tra la corposità dei contesti e l'astrazione dei pensieri e dei sentimenti; la suspence sottile che si avvolge come un convolvolo intorno alla scansione di fatti sempre uguali, e che pure si spostano impercettibilmente; la millimetrica, lentissima attenzione alla particolarità junghiana di lievi coincidenze significative, secondo un sincronismo magico appena accennato, e per questo tanto più efficace; la suggestione dei personaggi al contorno, che dilatano o echeggiano l'evolversi delle reazioni dei protagonisti come uno spartito di contrappunti musicali; l'esaltazione e la malinconia esistenziale che si trovano alternativamente all'interno di ogni progressione amorosa, e che pongono gli individui in modo altalenante tanto di fronte all'altro quanto di fronte a se stessi; le meditazioni sulla vita, con le parole che si incarnano nelle atmosfere e negli accadimenti, evitando di scadere nei soliti cartigli dei Baci Perugina.
Dunque un film sommessamente romantico nell'accezione rinverdita e vigorosa del termine, interessante e a suo modo nuovo non soltanto per la sicura professionalità letteraria e cinematografica del regista, quanto per la suggestione ricreata da una sorta di sincretismo fra Oriente e Occidente che, pur nell'epoca dei telefonini, annulla le mail, le chat, gli sms e li ricolloca all'interno di orizzonti diversi, leggendo tra le righe di un racconto anche la realtà di un paese, e osando quanto noi non siamo forse più in grado di osare: magari per eccesso di pudore autoironico, oppure per sbracato nullismo o, ancora, per un pensiero debole che si balocca tra disincanti e attese, dove tutto appare già detto e già provato, a vanificare il sacrificio di ogni slancio. Invece questi personaggi, nella mortificazione e nell'entusiasmo che scolorano l'una nell'altro, sviluppano una diversa forma di coraggio sul modo di stare al mondo, e rinnegano una condizione deterministica, consci del fatto che la vita assume un colore ed un senso se la si può raccontare a qualcuno.
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LUNCHBOX, di Ritesh Batra, India-Francia-Germania-Usa, 105 minuti
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