INTERNET
La guerra asimmetrica
Google sfida la Cina, togliendo i filtri al motore di ricerca. Sembra un nuovo conflitto tra l'occidente delle libertà e l'oriente dalla censura. Ma in realtà gli eserciti in campo sono altri. E, sorpresa, non è detto che i buoni siamo noi
di Massimo Balducci
In Italia ci sono 12 milioni di abbonati a internet, in Germania 23, negli Stati Uniti 79. In Cina ve ne sono attualmente 83, per un bacino complessivo di utenti stimato - e sono stime per difetto - in 384 milioni di persone: la Repubblica Popolare è dunque già oggi il più grande utilizzatore del web a livello mondiale. Ma per il web la Cina è allo stesso tempo qualcosa di simile al Diavolo: è il paese che con più tenacia (e fino ad oggi, efficienza) vi ha applicato il modello del controllo autoritario, della censura politica e del contenuto filtrato. Tanto che lo stesso colosso di Google, quando nel 2006 iniziò ad operare qui, dovette piegarsi alle leggi locali accettando un compromesso assai indigesto: da quattro anni gli utenti cinesi possono sì usare il motore di ricerca, ma "ripulito" di tutte le informazioni sgradite al governo (Dalai Lama e massacro di Tienanmen, tanto per dire i casi più celebri).
Da qualche giorno però il rapporto fra Google e la Cina è sulle prime pagine dei giornali, essendo precipitato in seguito a certi strani episodi avvenuti a metà dicembre. Secondo Google c'è stata una serie di attacchi informatici ai propri server eseguiti da hacker cinesi - verosimilmente per ordine del regime - al fine di intrufolarsi nella posta elettronica di alcuni attivisti dissidenti. Pechino naturalmente smentisce tutto, del resto non ci sono prove, ma l'azienda californiana ha deciso comunque di attuare una rappresaglia clamorosa rimuovendo i filtri al proprio motore di ricerca: che dunque dal 12 gennaio si sta mostrando ai cinesi in versione per così dire integrale, col Dalai Lama e tutto il resto, palesemente fuorilegge e dunque in attesa che le autorità (a meno di ripensamenti da una parte o dall'altra) provvedano ad oscurarlo in blocco.
Non si sa ancora come andrà a finire, ma comunque vada il governo cinese è - ovviamente - indifendibile. Su tutto il resto si può discutere: sulla furbizia di Google, che dà l'impressione di avere utilizzato gli hackeraggi come pretesto per uscire da una situazione imbarazzante e in palese contrasto con i suoi principi-guida; sulla debolezza degli Usa, che prima sono partiti in quarta con Hillary Clinton alla conquista dei diritti umani e poi hanno subito fatto marcia indietro per non inimicarsi il gigante asiatico. E soprattutto si può discutere sulla nostra radicata ipermetropia idealistica: vediamo benissimo i particolari lontani, meno quelli vicini. Già, perché qui in occidente (e neanche a torto, per carità) non tolleriamo mica che la Cina calpesti un valore sacro e "non negoziabile" come la Libertà d'Espressione: salvo poi negoziarlo continuamente, a casa nostra, talmente abituati alle Cine che abbiamo in noi da non vederle nemmeno più.
La prima cosa da imparare per vivere in un paese libero è che non c'è mai "censura", ma "sicurezza": perché la "sicurezza" è un valore positivo per il quale i liberi cittadini possono essere disposti a sacrificare una parte della loro libertà. Ricordo solo che c'è un paese dell'Europa del Sud dove appena un mesetto fa si parlava tranquillamente di imporre nuove leggi liberticide per evitare che Facebook - veicolo di violenza "peggio degli anni ‘70", come dice la seconda carica dello Stato - potesse "mettere in pericolo la pace sociale". Bene, in Cina la pace sociale la garantiscono ancora meglio: Facebook non esiste nemmeno più, la minaccia è dunque estirpata alla radice e per la verità gli abitanti non sembrano neanche crucciarsi troppo per l'assenza del social network (peraltro sono convinto che alcuni miei conoscenti potrebbero considerare tale assenza come un valido motivo per trasferirsi in Cina).
E vogliamo parlare del decreto Pisanu? Facciamo un esempio pratico. Mettiamo che un esercente voglia offrire, gratis, l’utilizzo della rete wireless ai propri clienti: per il bene della "sicurezza" dovrà prima ottenere il permesso della questura, compilare un registro di chiunque usufruisca del servizio, non dimenticando ogni volta di fotocopiarne e conservare il suo documento di identità. Una gimcana burocratica che neanche la Stasi, e in grado di scoraggiare praticamente tutti: perché hai voglia di raccontarci che il web è per sua natura anarchico e selvaggio, e per sua natura lo è infatti, ma poi le persone che lo utilizzano sono soggette eccome alla legge dello Stato in cui si trovano. E in fondo la differenza principale tra i paesi occidentali e la Cina, da questo punto di vis ta, è che qua i divieti e le sanzioni sono aggirabili con una certa facilità mentra là vengono applicati sul serio.
La libera diffusione delle informazioni, per esempio, in Occidente spetta soltanto ai cosiddetti "pirati": tutti gli altri (immagino occorra chiamarli "i fessi", a questo punto) si attengono a norme sul diritto d’autore di tipo dinastico, kafkiano, nate sugli old media e trapiantate di peso su un organismo completamente diverso. E per di più, si tratta di norme che cambiano da paese a paese: ci vuole una bella faccia di bronzo per rinfacciare alla Cina la mondialità della Rete, l’impossibilità per alcuno di "organizzarsi come un cyber-universo autonomo", se poi ogni singolo Stato, democratico o meno, è un "cyber-universo" con i propri autonomi regolamenti che si differenziano da quelli del vicino.
E vogliamo parlare di Spotify? Spotify - detto in due parole - è un servizio online che consente di ascoltare gratuitamente, e legalmente, musica in streaming. In Svezia, nel Regno Unito, in Francia e negli altri paesi in cui è attivo sta causando l’ennesimo terremoto nella fruizione musicale: peccato che per ora ne siano tagliati fuori fra gli altri anche gli Stati Uniti, il più grande mercato discografico del mondo, perché (volendo appunto restare nella legalità, a differenza di altri servizi simili) non si è ancora riusciti a trovare l’accordo con le aziende che detengono i diritti d’autore. E nell’attesa, gli utenti esclusi se ne fanno una ragione: ci si abitua a tutto, anche a vivere senza Spotify, o senza Facebook, o perfino senza le foto di un leader religioso considerato dalle autorità una minaccia all’armonia dello Stato. E’ terribilmente normale, e si potrebbero fare infiniti altri esempi per correggere la nostra ipermetropia e dimostrare che la libertà di espressione su questa terra - più che un "valore non negoziabile" è allo stato attuale un faticoso e fragile compromesso fra interessi diversi, che necessita di continui aggiustamenti e ridefinizioni.
Perché alla fine gli Ideali sono anche assoluti, ma gli esseri umani sono adattabili, ed assai più della democrazia è il consenso a fare la differenza: quando un governo ha il consenso, anche i peggiori soprusi vengono in qualche modo accettati. Per questo forse dovremmo almeno considerare la spiacevole (ma forse non così irrealistica) eventualità di ritrovarci noi stessi un po’ più vicini alla Repubblica Popolare Cinese che alla realizzazione dei nostri maiuscoli e non negoziabili Ideali.
E questo non sminuisce affatto l’importanza del conflitto in atto fra Google e la Cina: ma forse non si tratta della "nuova guerra fredda" come se la immagina qualche creativa scuola di pensiero da fantascienza neomaccartista - che già prefigura un'epoca di cyber-attacchi gialli in grado di lasciarci al freddo e al buio, fermare il traffico aereo, bloccare il funzionamento di grandi aziende e interi paesi (niente male per chi finora, secondo un'accusa peraltro non confermata, ha violato due account di gmail). Piuttosto, ciò che accade in questi giorni sembra prefigurare uno scontro di tipo inedito, e molto più ampio, tra il Web nel suo complesso e gli Stati in quanto tali: la guerra asimmetrica tra un’entità liquida, anarchica, transnazionale e le istituzioni (democratiche o meno) che hanno bisogno di tenerla sotto controllo.
Tags: censura, cina, dalai lama, decreto pisanu, diritto d'autore, germania, google, hacker, hillary clinton, internet, italia, Massimo Balducci, Pechino, peer to peer, regno unito, renato schifani, spotify, tibet, tienanmen, usa, web,
27 Gennaio 2010
giudizio:
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Commenti
sì è vero, grazie per la
sì è vero, grazie per la precisazione!
Innanzitutto non sono stati
Innanzitutto non sono stati violate solo caselle email di attivisti ma anche i server di diverse aziende occidentali. Non sarebbe nemmeno la prima volta e infatti il governo cinese ha abilmente glissato sul dettaglio. E poi il richiamo "ad effetto" nell'occhiello ("E, sorpresa, non è detto che i buoni siamo noi") mi sembra infondato una volta letto l'articolo. Al massimo sarebbe stato pertinente un "E, sorpresa, non è detto che i cattivi siano solo gli altri" oppure "E, sorpresa, non è detto che da noi non accada lo stesso." Saluti!
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