FILM
La periferia fa tappezzeria
Nonostante l'ottima prova di Elio Germano, premiato come miglior attore a Cannes, La nostra vita di Daniele Luchetti conferma l'incapacità del cinema italiano di raccontare gli scenari del nuovo proletariato. L'abbiamo visto in anteprima al Festival
di Simone Dotto
Da qualcosa come quindici o vent’anni, il cosiddetto cinema italiano medio si trova dietro il banco degli imputati, sempre con i soliti capi d’accusa. Gli si rimprovera, in breve, una sostanziale incapacità di uscire dalle note cornici narrative, per le quali l’ottanta per cento delle storie ha immancabilmente luogo in un qualche loft della Roma bene. Ogni anno, sui nostri schermi, decine di liberi professionisti della medio-alta borghesia si aggirano in preda a generiche angosce esistenziali, tra non meno generiche ambientazioni di fondo e arredi che sembrano presi di peso dalle fotografie di un catalogo immobiliare. Se il filone di (apparentemente) innocui polpettoni mélo che spopolava durante il ventennio fascista è passato alla storia come cinema “dei telefoni bianchi” (ad indicare il lusso e l’altra estrazione sociale che avvolgeva i suoi protagonisti), oggi non sarebbe tanto difficile teorizzare l’esistenza di un “cinema da Ikea”, per rendere l’idea dell’asetticismo delle pellicole che vanno per la maggiore nelle nostre sale.
E’ forse anche per rispondere alla chiamata dell’attualità e della crisi che ultimamente qualche nostro regista, non ancora del tutto sordo a quel che succede fuori da Cinecittà, si è deciso a traslocare la propria attenzione in contesti finalmente diversi. Ci ha provato da poco il Soldini di Che cosa voglio di più e ora, in modo più deciso, tocca pure a Daniele Luchetti: La nostra vita - unico titolo italiano in corsa a Cannes per la Palma d’Oro 2010 - ambienta la storia di Claudio nei sobborghi romani, fra cantieri edili e case popolari. Il protagonista, un giovane manovale, affronta la perdita dell’amatissima moglie, morta durante il terzo parto: il resto è storia già vista, con la voglia di rivalsa e l’ansia di compensazione che spingono il malcapitato ad indebitarsi e a perdere il controllo.
L’elaborazione del lutto è un altro dei grandi leit motiv della nostra produzione cinematografica contemporanea, tutta improntata alle tematiche intimistiche e alla lacrima facile. Ma nel discorso portato avanti da Luchetti, un modulo ultracollaudato come questo dovrebbe rappresentare poco più di un pretesto, un’occasione per aprire lo sguardo su uno scenario diverso dal solito.
Una volta entrati nel vivo della realtà raccontata dal film, invece, ci si imbatte in una sequenza di casi sociali (e umani) disposti con precisione didascalica: si succedono, nell’ordine, le figur(in)e di una precaria cassaintegrata, un morto sul lavoro, un palazzinaro senza scrupoli, una serie di muratori extracomunitari malpagati in nero, una provocante donna romena che “se vole piazzà” e, addirittura, un pappone-pusher paraplegico che convive con una delle sue ex-protette (un improbabile Luca Zingaretti dalla lunga chioma posticcia).
Più che una sceneggiatura, sembra una rassegna stampa tratta dalle pagine di cronaca locale, dove l’attenzione a non perdere nemmeno un singolo aspetto del tema “vita di periferia” dà la cifra dell’imbarazzo che proviamo a parlare di qualcosa che conosciamo solo per sentito dire.
Fortuna che tutta questa casistica viene relegata velocemente in secondo piano, mentre l’obiettivo si sposta sul percorso personale di Claudio e sul suo modo di affrontare la scomparsa della compagna: La nostra vita è in realtà soprattutto la sua, di padre di famiglia e lavoratore scrupoloso che da un giorno all’altro vorrebbe riciclarsi in imprenditore furbetto, a caccia del soldo facile per poter comprare l’amore capriccioso dei figli. Assieme alla premiata ditta di sceneggiatori Rulli e Petraglia, Luchetti descrive quell’insoddisfazione e quel vuoto che spesso nelle classi disagiate (ma non solo) si tramutano in arrivismo e consumismo: li descrive, ma non riesce a raccontarli. Come già accadeva nel precedente Mio fratello è figlio unico, ci si richiama ad un contesto sociale e storico importante per poi abbandonarlo sullo sfondo, a far da tappezzeria alle vicende dei protagonisti.
Se in tutto ciò il film si regge comunque in piedi, il merito va ad uno stile registico scattante e azzeccato e all’ottima prova di Elio Germano, peraltro appena premiato come miglior attore a Cannes, in grado di dare al suo Claudio uno spessore e un realismo nervoso così intensi che – temiamo - riuscirà difficile vederlo impegnato in ruoli tanto diversi da questo in futuro. Per il resto, il tentativo di Luchetti chiarisce che trasferire set e soggetto dai salotti del Parioli ai quartieri popolari non è sufficiente per poter raccontare a pieno titolo il “nuovo proletariato”. Una volta mutati lo sfondo e l’arredamento, ora è il nostro stesso modo di vedere che chiede di cambiare.
Tags: cinema italiano, daniele lucchetti, elaborazione del lutto, elio germano, festival di cannes, imprenditore, la nostra vita, miglior attore, nuovo proletariato, periferie, Simone Dotto,
24 Maggio 2010
Oggetto recensito:
La nostra vita, DI Daniele Luchetti, Italia /Francia 2010, 95 m
giudizio:
(9 voti)
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