Equilibri perversi
Mi e’ capitato sotto gli occhi un interessante paper di una coppia di giovani studiosi, Diego Gambetta e Gloria Origgi, che offre una chiave di lettura interessante su come funzionino le cose in Italia.
La teoria da loro proposta, espressamente frutto di vicende personali, è che nel nostro paese, e in particolare nel mondo accademico italiano, le cose vadano in una certa maniera perché nei rapporti all’interno dell’università domini la tendenza alla ricerca di un compromesso al ribasso. Mi spiego meglio. Gambetta e Origgi ipotizzano che qualsiasi relazione che comporta uno scambio tra due soggetti (prestazioni contro prestazioni o prestazioni contro denaro) possa essere inquadrata in uno schema preciso. Ognuno puo’ decidere di fornire una prestazione di qualità elevata, e quindi impegnarsi di più, ma farsi pagare di più, oppure di qualità scadente, meno impegnativa, ma anche meno remunerativa. Ad esempio si può decidere di scrivere un paper ex novo e farsi pagare 500 euro, o di riciclarne uno già pronto e farsi pagare 200 euro. La loro tesi, più che ragionevole, e’ che in generale ognuno preferisca lavorare poco e ottenere tanto e che nell’impossibilita’ di farlo preferisca rispettare i patti. Nessuno in ogni caso ha in cima alle sue preferenze di lavorare poco e ottenere poco, preferendo invece, ovviamente, ricevere tanto per un lavoro di basso impegno. Nessuno tranne l’accademia italiana. O almeno questa e’ la teoria dei due autori, basata sulla loro esperienza personale e su di una serie di aneddoti, veri, sull’università italiana.
Assurdo? Mica tanto. Pensate a questo caso: ad un ricercatore o professore che vive all’estero viene chiesto da parte di un’università italiana di fare una relazione, una ricerca o altro. Quest’ultimo compie diligentemente il suo dovere, salvo poi scoprire che il corrispettivo e’ al di sotto di quanto pattuito. Naturalmente il professore e’ scontento perché ha fatto un pessimo affare. L’università invece dovrebbe essere più che soddisfatta, in fondo ha pagato meno e ottenuto il massimo. E invece no. L’impressione è che la controparte italiana si senta a disagio, disagio dettato dalla qualità della prestazione del professore estero. Perché direte voi? Perché sottolinea con un matitone rosso la bassa qualità della media delle prestazioni italiane. Come un secchione che ripetendo bene la lezione mette in evidenza di fronte alla professoressa la pigrizia dei compagni piu’ svogliati. Secondo Gambetta e Origgi, molti nell’universita’ italiana preferiscono di gran lunga pagare poco e ottenere poco per non alterare un prezioso equilibrio in cui ognuno può non impegnarsi troppo e magari fare altro.
Certo, passare da un caso personale corroborato da altri casi episodici a una generalizzazione è quanto di più pericoloso e sconsigliabile possibile, ed è il primo errore che ogni buon ricercatore dovrebbe evitare. Ma la teoria è suggestiva e realistica e pienamente in linea con quanto mi disse molti anni fa un amico a proposito del decadimento della qualità dei baroni in Italia. Un tempo questi ultimi preferivano scegliere come loro delfino una persona brillante perché ne andava del loro buon nome. Col passare del tempo, però, la percezione è che i baroni abbiano preso a scegliere persone meno abili di loro per non correre il rischio del classico allievo che supera il maestro. Un meccanismo che premia i più ambizioni e servili, ma meno bravi, e che a cascata porta gli incompetenti a rivestire le posizioni più importanti. Nelle università e negli ospedali come in politica.
Commenti
Come al solito Gambetta -
Come al solito Gambetta - noto per un suo libro in cui dice che il mercato può sconfiggere la mafia, ma che la mafia trucca il mercato - ha scoperto l'acqua calda. Ovvero ha (di)mostrato con un paio di osservazioni personali quello che tutti gli accademici italiani già sanno, perché è profondamente vero.
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