Due scrittrici esordienti, due libri di successo che appartengono a generi diversi ma hanno molti punti in comune: due amiche da un lato e due fidanzati dall'altro, due storie di disagio e mal di vivere. Recensione in parallelo di Silvia Avallone e Antonella Lattanzi: due grandi promesse, due piccole delusioni
di Alessandra Minervini
(Illustrazione di Daniela Tieni)
Silvia Avallone e Antonella Lattanzi, esordienti dalle penne d'oro, sono cresciute negli anni Ottanta: gli anni del reflusso (politico), del rigetto (televisivo) e del rampantismo (di facciata). Quasi coetanee, forse non si sarebbero mai conosciute (la prima è nata a Biella, la seconda nella levantina Bari) se, negli ultimi mesi, non avessero condiviso gli scaffali più in vista di (quasi tutte) le librerie italiane e se non fossero spalleggiate da (quasi tutte) le recensioni nazionali.
Dunque, perché scriverne? Se tutto è già stato detto, letto, plaudito, visto, criticato e amato? Perché i loro romanzi, Acciaio della Avallone (favorito al prossimo premio Strega) e Devozione della Lattanzi (paragonato, per taglio “verista” e intento documentaristico, a Gomorra) hanno più elementi in comune di quanto si pensi.
Acciaio è la storia di due adolescenti, Anna e Francesca, “la mora e la bionda”, povere ma belle, in cerca della felicità che fa rima con fuga dal paesello/voglia di vincere. Le fanciulle, più che essere anime gemelle, hanno i mali dell'anima gemellati: abbandoni famigliari non corrisposti, violenza morale e materiale, indigenza sentimentale, una pennellata di lesbo-wondering, vie di fuga autolesioniste in una Piombino necrotica, di cartapesta e naturamortale: puro sfondo allegorico (il concetto astratto del MALE, nel romanzo, assume le sembianze della cittadina di provincia).
Devozione è la storia di due adultescenti, nomi in codice: Pablo e Nikita, la bella e la bestia, viziati e viziosi, in cerca della felicità che si chiama eroina. I due fidanzati, più che essere anime gemelle, hanno i mali dell'anima gemellati: abbandoni famigliari non corrisposti, violenza morale e materiale, indigenza sentimentale, una pennellata di lesbo-wondering per Nikita, vie di fuga autolesioniste in una Roma lisergica e meschina. Perfetta.
Non sono storie sulla felicità. Nonostante l'afflato con cui i personaggi la ricercano. Del resto la scrittura nasce spesso da un disagio (ma non sempre questo vale per la lettura). Continuando sul piano delle somiglianze: sono romanzi corporei. In Acciaio i corpi delle protagoniste sono belli fino al pleonasmo: sodi, tonici, telegenici. In una parola: giovani. Su di essi si gioca tutto il passaggio adolescenza/maturità. Sopra tutti i corpi del romanzo spadroneggia quello vecchio e malmostoso dell'acciaieria Lucchini che fuma sullo sfondo e tritura i corpi degli operai da che esiste.
In Devozione, invece, le storie si evolvono in un violento corpo a corpo con l'eroina dove vince il corpo più forte, cioè il più devoto alla dipendenza. I deboli sanno liberarsi da una dipendenza più delle persone determinate. Il corpo sbrindellato di Nikita procede nella storia come un corpo stroboscopico, condannato a un movimento solo apparente. In realtà resta fermo e si incaglia nell'irruenza letteraria dell'autrice che sgorga fino all'ultima pagina.
Pur essendo romanzi ambientati negli anni Zero, i protagonisti appartengono a quel genere di italiani che davamo per dispersi, quelli che non vanno in tv o sui giornali, a parte quando muoiono. Gli invisibili. Gli operai che pensavamo disgregatisi come “neve al sole” (per usare una similitudine che piacerebbe ad Anna e Francesca) in realtà sono dove gli avevamo lasciati: a morire nelle fabbriche. La novità è che in Acciaio, prima di morire, tirano di coca stipendi con contributi e votano Berlusconi. Nessuno, oggi, si aspetta un romanzo sulle fabbriche (e sull'Italia) con la stessa profondità di sguardo di Volponi, Pratolini, Arpino, Bernari, Guerrazzi. Ma che chi scrive un romanzo sulla provincia operaia abbia letto questi autori e ne dia testimonianza, se non omaggio, sì. Ce lo aspettavamo.
Chi invece ha letto di tutto e di più è l'autrice di Devozione. Il risultato è una lingua che non riesce a dare voce agli invisibili-eroinomani che spuntano nel romanzo balbettando. Il che è talento, vale a dire: desiderio di stare al mondo scrivendo. Solo che l'intensità della scrittura è a fondo perduto. Crea tensione tra la storia e il lettore che, sbandato dalla fatica, gira e gira tornando al punto di partenza. E, alla fine, si ritrova proprio come la protagonista: “a rota”. Peccato.
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Silvia Avallone, Acciaio, rizzoli 2010, p. 357, euro 18
Antonella Lattanzi, Devozione, Einaudi 2010, p. 372, euro 18,50
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