L'operazione è di quelle ad alto rischio: riempire il vuoto d'immaginario degli USA e del mondo intero intorno all'uccisione dell'ultimo dei suoi Nemici Pubblici. Se ne fa carico Kathryn Bigelow, la regista di The Hurt Locker, rattoppando dati e fiction in Zero Dark Thirty, che nel campo minato di una situazione scottante si muove con circospezione
di Marinella Doriguzzi Bozzo
Della cattura e della morte di Saddam Hussein sembra di sapere tutto sia per le immagini del suo ritrovamento in una buca -i denti frugati, i peli scarmigliati e stinti - sia per il video della sua esecuzione - il cappio al collo, la botola che si apre. Della cattura e della morte di Osama Bin Laden sembra viceversa di non sapere niente perchè tutto è stato affidato alla parola ufficiale, se si eccettuano gli esterni di una casa di cemento grezzo, sorta di rudimentale ricovero per pollame predestinato.
Un altro pezzo di Storia americana che, come il film su Lincoln (vedi recensione), compare in contemporanea sugli schermi, a illustrare anche due modi diversi eppure apparentabili di fare cinema. Entrambe le pellicole hanno in comune dei fatti realmente accaduti, un nemico da sconfiggere, un'idea di nazione che contempla nobiltà e espedienti. Ma mentre Spielberg scandaglia agiograficamente le radici di uno Stato avvalendosi non soltanto di una icona presidenziale, bensì concentrandosi sull'iter legislativo per l'abolizione della schiavitù (di cui si a tutto, comprese le immancabili controversie interpretative) la regista Bigelow deve ingegnarsi di tradurre in immagini parole dette e non dette, ricostruendo lei la documentazione mancante. In questo senso Lincoln rappresenta la dilatazione di un periodo breve, mentre Zero dark thirty sintetizza, per una durata filmica analoga, un ciclo investigativo che va dal 2001 al 2011. Compito arduo, perchè Spielberg deve scegliere da un immaginario consolidato e giganteggiante, mentre Bigelow è costretta a riempire in modo convincente un vuoto sfilacciato, anche troppo denso di omissioni.
Il racconto procede per approssimazioni successive, lasciando efficacemente l'inizio ad uno schermo buio, attraversato soltanto dalle parole telefoniche delle vittime durante il momento non più cinematograficamente rappresentabile dell'attentato alle torri gemelle; poi passa ad una anonima prigione di anonimi inquirenti torturatori e infine sboccia per accenni nel colorito folklore del suolo pakistano. La prima metà del racconto cerca di sintetizzare il lungo lavorio precedente la cattura di Osama, affidandolo alla persona di Maya, giovane addetta della CIA, che sembra perseguire una sua fin troppo arbitraria e solipsistica sfida personale,mentre l'apparato ufficiale latita inconcludente. Poi la seconda metà si concentra - più efficacemente e con maggiore emozione - anche visiva sull'operazione offensiva vera e propria, arrischiata sulla base di supposizioni non probate. Compare quindi fugacemente sullo schermo una unica figura nota alle cronache, quella di Leon Panetta, mentre il dramma personale di Obama,o quello del generale Petraeus, responsabile delle forze americane in Afghanistan, rimangono negli impliciti del "dietro le quinte".
Ne risulta quindi un racconto che cerca di colpire senza sconfinare troppo nella finzione e senza tirare in ballo protagonisti augusti o complicazioni politiche internazionali. In fondo, anche se le ambizioni e le difficoltà sono maggiori, ci si ritrova in un contesto non dissimile da quello adottato da Ben Affleck per il suo recente Argo (recensito qui). Entrambe le regie devono sforzarsi di essere credibili e adottano quindi un tono neutro e spoglio per esaltare la cronaca a discapito del romanzo. Ma in Argo il racconto,quasi un apologo, preesisteva solido, ed era pure accattivante e compatto. In questo caso no, e quindi Bigelow risulta (come la sceneggiatura del compagno Mark Boal) insieme troppo attenta, troppo cauta, troppo didascalica e troppo elusiva, talora quasi rattrappita sul proprio stesso atto di coraggio.
La pellicola ha comunque in alcuni tratti una sua incisività quasi autonoma ma, a partel'audacia di farsi carico di una controversa e recentissima verità, manca della violenza immaginifica di Point break (1991) o di Strange days (1995) come della suggestioni anche simboliche di The hurt locker (2008). Strutturalmente, risente della sintesi diseguale di un periodo troppo lungo, che non sempre riesce a prendere la giusta rincorsa verso il suo cuore finale: il personaggio non storicamente individuabile di Jessica Chastain fa da collante agli spezzoni temporali, ma appare un pretesto femminista piattamente unidimensionale, mentre il gruppo di maschi slavati tocca un momento di breve unità umana solo nel frangente della cattura.
Per il resto, ci si trova di fronte ad un'ambiguità dell'immaginare e del raccontare che oscilla fra volontà documentaristica e necessità di un intrattenimento il cui percorso narrativo soffre di timbri e di angolazioni sbilanciati, scelti per trattare come quasi casuale e "domestica" un'operazione che è stata per anni l'incubo americano per eccellenza.
Anche in questa circostanza, come con Lincoln, si tratta di un'impresa che tenta in qualche modo di lumeggiare una civiltà forse in procinto di smarrirsi senza volerlo ammettere, e che pone in primo piano ardimento orgoglioso e motivi alti senza tuttavia sapersi avvalere omogeneamente di quei cortocircuiti inventivi fra punti di vista, contenuti e rappresentazione che fanno grandi i film, a prescindere dalla retorica degli eventuali Oscar.
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Zero Dark Thirty, di Kathryn Bigelow, USA 2012, 157 m
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