Con la cinepresa sui luoghi devastati dal terremoto, Sabina Guzzanti accantona i toni chiassosi della partigianeria e impara a farsi da parte. Il suo film pone interrogativi che, risentiti alla luce di certe recenti dichiarazioni, si tingono di un'attualità sempre più inquietante
di Marinella Doriguzzi Bozzo
Ci siamo chiesti per qualche giorno se andare a vedere questo documentario-inchiesta. E poi, ci siamo anche domandati se, dopo averlo visto, avremmo avuto la voglia o la fermezza di recensirlo. Perché, leggendo i giornali, sapevamo che in qualche modo avremmo trovato, compattato in un'impermeabile evidenza, quello che lo stillicidio quotidiano ci aiuta, se non ad assorbire, ad accantonare come un dovere rimandabile, e poi a dimenticare in una autogiustificazione di impotenza. Perché ci imbarazzano le requisitorie, per quanto sacrosante, ad una sola via o dimensione, nonostante una precisa ma sempre meno incisiva scelta di campo. E infine, perché temiamo il dilettantismo quando si incarna in un improprio scambio di ruoli (nella fattispecie i politici che fanno i comici, e i comici che fanno politica).
Poi ci siamo ricordati di una frase di Martin Luther King, appuntata su di un qualche quadernetto:”Non è grave il clamore chiassoso dei violenti, bensì il silenzio spaventoso delle persone oneste”. E qui abbiamo ceduto, e abbiamo fatto benissimo.
Primo, perchè la nostra Sabina ha saputo avanzare nella denuncia proprio facendo personalmente un passo indietro. Secondo, perchè non ha preordinato uno schema a tesi, in un ambiente di fatto già così mediaticamente coperto: ossia da un lato clamorosamente visibile dappertutto nella sua esteriorità, dall’altro combinato in modo tale da seppellire molte semplici verità umane e molte inquietanti verità di sistema sotto un tappeto invisibile.
Spettinata e defilata, più attonita che ironica, quasi sommessa voce fuori campo, la regista si traferisce da cittadina perplessa e si accolla una sorta di inchiesta di oltre 700 ore - quando tutto è già accaduto - facendo parlare i luoghi (il film si apre sul desolato silenzio della città vecchia, commentata da un sindaco fantasma, ombra fra le ombre) e lasciando interagire le persone e le cose per accumulo, senza mai neanche sfiorare con l’archetto la corda del beffardo o del sentimental-retorico, o sfruttare la miniera delle immagine patetiche, crude, disperate... La Guzzanti, invece, si muove in tondo, accerchiata anche lei come gli aquilani da una dimensione ambigua di maternità autoritaria o di altruismo occhiuto, quando non feroce.
Però: difficile per tutte le parti in causa muoversi con rispetto e senza sovraesposizioni improprie fra una popolazione eterogenea, colta come quasi analfabeta, ma accomunata dai morti, dai muri pericolanti, dalla perdita di tutte le cose, dalle lenzuola umide nelle tende sovraffollate. Difficile esercitare la democrazia, rispondendo a necessità eccezionali, tenendo conto dei sentimenti di tutti. Difficile non ricorrere aprioristicamente al decisionismo, quando le urgenze sono plurime e spesso contrastanti, in un Paese che ha bisogno di accreditare un’immagine diversa rispetto alle trentennali baracche dei terremoti precedenti.
E questo la regista non lo tralascia, sfuggendo del tutto ad una faciloneria partigiana o anche solo chiassosa o comunque sopra le righe. Ma si rende però altrettanto facile allo spettatore non catatonico verificare autonomamente come le immagini filmate corrispondano agli oggettivi "scandali" che rapidamente hanno cominciato a fare da contrappunto all'inflazione dei tanti santini edil-popolari e che culminano (a casette abitate, ad affari semiconclusi o impediti,e a film finito) nell’intervista che Ciampi ha rilasciato qualche giorno fa a Repubblica.
Le rivelazioni per le quali lui come presidente del consiglio, e l'allora capo dello stato Scalfaro, nell’estate di diciotto anni fa, poco dopo le eslposioni mafiose temettero un golpe buttano una strana luce anche sulle vicende più attuali svelate dal documentario. Come se l'Aquila, ripensandoci adesso, fosse stata anche non solo un accidente (oltre che l'occasione di rilanciare l'immagine di un premier allora un po' appannata) bensì un’esercitazione, un test, un esperimento per verificare la militarizzabilità di un'emergenza.
E questo diventa il messaggio, ancor più attuale e minaccioso, di un documento che si chiude con le seguenti, pacate parole di Unoqualunque: "Non si puo' propriamente dire che questa sia una dittatura, quella dove alligna la tortura. Si tratta più di una dittatura della merda. Della quale si continua a dire: non può durare. Ma non è vero. Dura, invece, durerà", sottolineando tutte le pericolose implicazioni che si presentano quando il potere è nelle mani di un’oligarchia ignorante, avida, colpevole, che sfrutta la stanchezza, la disinformazione, la rassegnazione dei più, corroborate e distratte da una riduzione dei valori collettivi al proprio sempiterno, guicciardiniano "particulare".
Un horror civile e anche tecnicamente umile, ma, alla luce degli ultimissimi giorni, ancora più inquietante e quindi massimamente consigliabile a tutti, perchè questa serialità abbia qualche speranza di interrompersi. Prima che dal guano si passi ad altro.
Tags: Abruzzo, Berlusconi, Bertolaso, colpo di stato, documentario, Draquila, golpe, L'Aquila, Marinella Doriguzzi Bozzo, protezione civile, sabina guzzanti, terremoto,
Draquila - l'Italia che trema di Sabina Guzzanti, Ita 2010, 98 m.
Commenti
Invia nuovo commento