La xenofobia ai tempi di Facebook: malgrado gli sforzi dei social network, la rete abbonda di offese contro neri, rom ed extracomunitari. Ma c'è differenza fra scrivere questi slogan su un muro o in una vetrina telematica
di Massimo Balducci
Non mi capita spesso, nel mondo reale, di imbattermi in quelle scritte del tipo “A MORTE I ROM” o “USIAMO GLI ZINGARI COME PELLET” che pure ogni tanto spuntano in giro per l’Italia. Fortunatamente, in un luogo ancora abbastanza civile come Bologna il problema dei muri insozzati è più che altro di tipo estetico e non politico. Qualche mese fa però, in una cittadina di provincia di cui non faccio il nome, sono passato davanti alla saracinesca di un ristorante cinese che era quasi interamente coperta dallo slogan “TORNATE A CASA”, sovrastato da una bella svastica per rimarcare meglio il concetto.
E sarà che appunto non ci sono abituato, ma quella scritta e quel simbolo ce li ho ancora stampati in testa. Quando mi capita di ripensarci non riesco a rimanere indifferente, anzi mi sale su una sensazione d’angoscia: ma a cosa è dovuta, poi, questa angoscia? Al contenuto razzista in sé? Oppure al fatto di vederlo incarnato nella forma concreta di una scritta spray, che ti aggredisce gli occhi a tradimento mentre ti stai facendo una passaggiata?
Il dubbio è legittimo, perché bazzicando parecchio sul web non si può ignorare che gli stessi razzismi - spesso anche più gravi - si sono sempre trovati facilmente fra le chat, i forum, i blog e i gruppi di Facebook (anche se per la verità negli ultimi tempi, dopo un acre periodo di polemiche, campagne d’opinione, e perfino interrogazioni al Parlamento Europeo, il social network di Mark Zuckerberg ha iniziato ad applicare in maniera più rigida la propria policy e si è relegato il fenomeno in aree più clandestine).
Eppure, almeno per quanto mi riguarda, la reazione di fronte a tali episodi è di tutt’altro tipo rispetto a quella provocata dal “TORNATE A CASA” dipinto sulla saracinesca. E non solo perché il razzismo online possiamo almeno scegliere di ignorarlo, mentre quello materializzato no. Fra le diverse forme in cui si esprime il pensiero infatti (ammesso che di “pensiero” si possa parlare, in questi casi) c’è la banale ma non ignorabile differenza che passa tra chi cazzeggia e chi fa sul serio.
Se io imbratto una bacheca di Facebook per scrivere “A MORTE I ROM” è una cosa. Se con la stessa scritta imbratto un muro della mia città, dopo avere preso la vernice, essere uscito di notte, ed avere fatto attenzione che non ci fosse qualcuno in giro, è un’altra. Se poi esco con una tanica di benzina e me ne vado ad incendiare un campo rom, è un’altra ancora. Certo, questi tre gesti hanno alla base il medesimo concetto.
Ma il primo suscita soltanto schifo, associato ad una certa pena per quel povero cretino che può averlo espresso (e magari qualche deduzione sulla sua scarsa attività sessuale). Il secondo invece è inquietante, e fa ricomparire quei fantasmi delle leggi razziali di cui forse noi italiani non ci libereremo mai. Il terzo infine è indicibile, perché quei fantasmi li fa tornare in vita. Perciò, quelli che saltano su ad allarmarsi ogni qualvolta il web libera gli animal spirits - sostenendo che i razzisti virtuali rischiano di trasformarsi in sprangatori di professione - fanno lo stesso effetto di chi dice che dallo spinello si passa per forza alle droghe pesanti.
Il razzismo non scompare, né si riduce, eliminandone le manifestazioni visibili. Del resto non credo che nessuno abbia la ricetta per curare i razzisti e farli diventare persone liberali e tolleranti; ma se questa ricetta esistesse, non avrebbe a che fare con una loro rieducazione scolastica (convincere il razzista a non esserlo utilizzando argomenti culturali, filosofici, scientifici, storici) e tantomeno con la coercizione.
Per questo i reati di opinione sono paradossali, e se vengono applicati al web lo diventano ancora di più. Al riguardo vale ricordare che in Italia la legge 654 del 75 punisce chi propaganda “in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico”, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. In qualsiasi modo.
Un sistema di questo tipo potrebbe anche essere sensato, forse, se tenesse conto dei differenti media che possono essere implicati. Perché nelle opinioni, il mezzo ed il contesto contano eccome: anzi, mi viene da dire, meno male che i razzisti possono sfogarsi sul web invece di farlo in altro modo!
E per quanto ribrezzo possano suscitare, fatico a ritenere i razzisti online come dei “delinquenti”: tanto più nel paese guidato da una persona che un giorno sì e l’altro pure utilizza - grazie al consenso - il suo potere in modo illegale, e che pochi giorni fa annunciava che la Protezione Civile non sarebbe più intervenuta in una zona colpita da terremoto, davvero possiamo prendere sul serio questa patacca dei “reati d’opinione”?
I razzisti online rimangono dei parìa. Tutta la loro “propaganda” messa insieme non vale un mezzo secondo di Calderoli che parla dell’Islam. Possono davvero fare più paura di chi impunemente - con formule appena un po’ più corrette, ma che corrette non sono affatto - arringa allo stesso odio dai più alti scranni politico-televisivi?
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