di Marco Dalpane
Ancora tagli decisi dal governo: Tremonti dice che con la cultura non si mangia, Brunetta dice che lo spettacolo non è cultura. Possiamo provare a sostenere qualcosa di diverso? Perché pensi che la cultura sia un investimento necessario? Perché non dovremmo fidarci semplicemente del mercato ma cercare strategie alternative?
Dobbiamo innanzitutto considerare che quello italiano è un caso unico. Il governo di questo paese teorizza che lo Stato non debba più intervenire sulla cultura e lo mette in pratica con i tagli diffusi, ma anche con la riforma dell’università e della scuola. È un’anomalia, perché nel resto d’Europa questo non avviene. In Francia ad esempio c’è un governo di destra che non pensa che l’intervento pubblico non sia necessario. Qui si afferma che il mercato debba essere libero e possa rispondere da sé alle esigenze del pubblico, e dietro c’è un ragionamento politico caratteristico del nostro paese. Il presidente del consiglio ha un ampio controllo sul mercato della cultura: ha case editrici, quasi il monopolio sulla produzione cinematografica e sul mercato televisivo.
Spesso la politica culturale delle giunte o dei governi di sinistra non si è distinta con chiarezza dalla politica della destra. Come si può correggere questa tendenza?
In effetti la cosa che sorprende è che anche dall’altra parte, pur non dichiarandolo esplicitamente, si segue questa stessa prassi. In un momento oggettivo di difficoltà degli enti locali, pur partendo da investimenti non certo alti, si taglia comunque la cultura. Invece bisognerebbe difendere con forza l’intervento pubblico. Non un intervento pubblico che scimmiotti il mercato, come abbiamo visto fare anche recentemente a Bologna, cioè con i cosiddetti grandi eventi, andando a pescare la star di turno per raggiungere un profitto immediato - che per la politica significa tanti spettatori che creano consenso - ma un investimento pubblico che serva a dare la possibilità di incontrare altri progetti, che garantisca il pluralismo culturale. Io sono convinto che ci sia un problema di offerta nel nostro paese dovuto a questo monopolio del mercato, alla censura del mercato, benché ci sia una domanda che chiede altri prodotti, esattamente come avviene negli altri paesi europei. Si deve difendere l'intervento pubblico in cultura, senza badare al profitto, ma sostenendo le attività presenti sul territorio, per garantire la differenziazione dell’offerta culturale. E quando parlo di cultura parlo anche di università.
Da musicista sono particolarmente sensibile al tuo ragionamento, proprio in relazione a questo bisogno di differenziare la proposta cercando di cogliere le linee di tendenza della musica di oggi. La diffusione della musica sul web rende possibile all’utente una scelta non condizionata dal circuito distributivo che fino a ora aveva incanalato il mercato: voglio dire che in un negozio di dischi trovi solo un certo numero e tipo di prodotti, mentre sul mercato virtuale del web trovi un’infinità di cose a cui puoi accedere direttamente senza subire il filtro dell’industria discografica o della critica. Questo ha contribuito a spostare i gusti del pubblico e oggi il mercato è decisamente più segmentato rispetto a qualche anno fa. Come fa un ente pubblico a favorire il riconoscimento della molteplicità? Le scelte sono sempre indispensabili e per farle servono competenze che oggi non sono certo particolarmente riconosciute.
Anche questo è un discorso che va calato nella situazione italiana. Rispetto a quello che dicevi l'Italia deve ancora raggiungere certi risultati: è un paese dove è difficile accedere ai concerti di musica contemporanea, dove certi generi musicali come il rock vengono considerati di serie B, dove persino il jazz fa fatica ad essere considerato come una delle espressioni artistiche più importanti del ‘900. In Italia abbiamo bisogno di aprire, come è avvenuto nei grandi paesi in buona parte d’Europa e nell’America del nord, fare in modo che i soggetti che producono cultura abbiano la possibilità di presentare i loro prodotti al pubblico. L’amministrazione pubblica non ha il compito di entrare in scelte estetiche, ma ha il compito di dare indirizzi: nel momento in cui l’indirizzo è la differenziazione dell’offerta, sapendo che ci sono soggetti che producono attività culturali o musicali di alto livello ma che sono in difficoltà a causa del mercato, l'amministrazione deve fornire loro la possibilità di incontrare il proprio pubblico. Rispetto agli altri paesi abbiamo molte lacune da colmare in questo senso, basta vedere il meccanismo che regola le fondazioni lirico-sinfoniche, organismi in profonda crisi e che propongono quasi una “storia della musica”, senza cercare di rappresentarne tutte le sfaccettature. L’intervento pubblico potrebbe aiutare a colmare questa lacuna.
Questo è un argomento centrale, poiché evidentemente nel nostro paese le risorse sono distribuite in un modo squilibrato. Per un musicista che lavora al di fuori del mondo istituzionale è quasi impossibile trovare spazi.
Questo è certamente vero. I finanziamenti alle istituzioni assorbono una percentuale altissima di risorse. Prendiamo ad esempio il teatro comunale di Bologna: un’istituzione di questo tipo, che assorbe milioni di euro ed è aperta a malapena 100 giorni all’anno, riesce a produrre un numero molto esiguo di rappresentazioni. Un modo di spendere i soldi non proprio produttivo. Il nostro paese deve superare ostacoli che stanno anche dentro il sistema culturale italiano. Sulla lirica c’è una sorta di atteggiamento ossequioso a prescindere. Si pensa che qualsiasi altro spettacolo rappresenti un’offesa alla musica. C’è un problema di svecchiamento. Questi contenitori vanno resi attuali, bisogna porsi il problema di cosa producono e quanto costano. C’è poi un’altra questione. Dopo la legge Bassanini la cultura è materia di natura concorrente, cioè ci dovrebbe essere un accordo tra lo Stato e le Regioni e gli enti locali ogni volta che si fa un intervento. Questo però non accade. Per restare all’Emilia Romagna, il ministro Bondi, pur in presenza di una fondazione lirico sinfonica in profonda crisi come accade a Bologna, ha pensato bene di andare a Parma e di finanziare il festival Verdi con altre centinaia di migliaia di euro su un segmento di prodotto che è simile a quello che propone la fondazione lirico sinfonica bolognese.
Sono di ritorno da un viaggio a Gent, in Belgio, città di 200mila abitanti che ha due centri culturali di straordinaria vitalità direttamente sostenuti dalla città. Ognuno ha al suo interno auditorium, teatri, sale prova, sale cinematografiche, spazi multimediali e una programmazione di grande ricchezza e qualità, dove anche gli artisti locali trovano spazio. Perché a Bologna non si riesce a creare nulla di simile, nonostante la città continui a produrre un panorama piuttosto vivace dal punto di vista delle arti e della cultura?
Perché Bologna vive le contraddizioni che vive il paese: ha la fortuna di avere una grande ricchezza di professionisti, di organizzatori, di intellettuali, un tessuto molto vivo dal punto di vista culturale. A tutto questo però da almeno 10 anni corrisponde una totale assenza della politica, che potrebbe trasformare questa ricchezza in patrimonio della città. Purtroppo ultimamente l’assessore alla cultura praticamente non ha avuto bilancio a disposizione, quindi non ha potuto dare indirizzi. Alla base ci vorrebbe la consapevolezza che se si vuole modificare qualcosa in questo paese, bisognerebbe investire sulla cultura, pur tenendo conto della situazione di crisi. Il Comune potrebbe fare tavoli con le istituzioni bancarie e con la Regione per recuperare risorse, cercare finanziamenti europei. La cultura non deve essere più considerata un lusso, addirittura uno spreco. Si può essere però ottimisti perché Bologna nonostante tutto resiste ancora. Questo sarà un argomento fondamentale in vista delle prossime elezioni, una delle questioni su cui si dovranno misurare i candidati a sindaco di questa città. Se si assecondano le pulsioni che da molti anni ci hanno governato, diciamo dagli anni ’80 e in particolare dalla metà degli anni ’90, sarà difficile intravedere un’opzione diversa per il paese.
Ritorno sulla questione dei grandi eventi, che ammorba sempre più le scelte di politica culturale di tanti comuni italiani. La risposta che spesso ci si sente dare quando si critica questo tipo di indirizzo è che il grande evento si ripaga da solo, essendo l’unico tipo di manifestazione artistica in grado di raccogliere l’interesse dello sponsor privato. In questo modo gli spettacoli che già hanno in sé le caratteristiche giuste per catturare l’attenzione del pubblico beneficiano ulteriormente del finanziamento dello sponsor. Come può fare un'amministrazione a uscire da questa logica?
La questione dei grandi eventi e degli sponsor nasconde una bugia di fondo. Intanto bisognerebbe dire in maniera chiara che gli eventi non esistono, nel senso che un evento è tale solo storicamente, nel tempo. Grandi musicisti che hanno determinato svolte epocali al loro esordio sono stati fischiati, da Charlie Parker ai Sex Pistols. La parola grande evento ha una natura puramente massmediatica e commerciale. In realtà dietro questa politica c’è un altro ragionamento, cioè il tentativo dell’ente pubblico di scimmiottare il mercato, cercando di raggiungere il massimo profitto. E profitto significa consenso, anche se si produce qualcosa di assolutamente effimero, che però richiama un pubblico molto esteso. Io credo che gli sponsor non siano così legati a questo tipo di considerazioni, ma potrebbero essere legati agli indirizzi che l’amministrazione pubblica dà. È ovvio che in assenza di indirizzi e di una idea chiara, senza una visione di prospettiva non si possono produrre risultati. Ritengo che spendere i soldi dei cittadini secondo una logica di mercato sia sbagliato. Non ho niente contro il mercato, ma poiché ci sono artisti che secondo i normali canali hanno già un enorme successo, non si capisce perché l’ente pubblico li debba sostenere e finanziare ulteriormente. I soldi dei cittadini vanno spesi per aprire delle possibilità, per dare modo di vedere cose che il mercato non garantisce. Questo sarebbe utile al mercato stesso, perché spesso le cosiddette avanguardie artistiche sono state poi nella loro evoluzione assorbite dal mercato, che si è rigenerato, mentre ora rischia di prosciugarsi, ripetendo gli stessi schemi.
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