La musica non interessa più agli intellettuali. Questa l'accusa che Mario Gamba ha lanciato dalle pagine della rivista Alfabeta2. Giudizio Universale raccoglie l'appello e propone una serie di riforme, per svecchiare le programmazioni dei teatri e riportare i compositori contemporanei al centro dell'attenzione
di Marco Dalpane
Illustrazione di Daniela Tieni
Certo Mario Gamba ha ragione, e nel suo pezzo che compare sul primo numero di Alfabeta2, col consueto estro e vis polemica che lo contraddistingue, spara a zero sui presunti intellettuali della musica, incapaci di cogliere la forza rivoluzionaria della musica di oggi.Le sue posizioni sono note, ha scritto un paio di libri sulle vicende ultime della musica e esercita dalle pagine de il manifesto una serrata critica militante, alla ricerca di quelle chance di liberazione che a suo parere ci vengono offerte dal mondo dei suoni.
Dunque da qualche decennio gli intellettuali italiani hanno smesso di pensare la musica, che è sparita dal dibattito contemporaneo con la stessa rapidità con cui negli anni ’60 ne era diventata protagonista. Interessante andare alla ricerca delle cause, e dei colpevoli, e alla fine gli innocenti saranno pochi.
Ma chi sono gli intellettuali della musica? Beh, prima di tutto i musicologi, gli storici, i critici, tutti quelli che di musica scrivono su libri, giornali, riviste, blog. Ma la categoria dovrebbe essere subito allargata. Direttori artistici, sovrintendenti di teatri, assessori alla cultura e i loro consulenti, presidenti di comitati per la celebrazione del…, presidenti di giurie di concorsi, curatori di programmi televisivi e radiofonici, produttori di etichette discografiche. Anche da questi posti di comando si prendono decisioni che riflettono un pensiero, o un’assenza di pensiero, riguardo alla musica. Anche i commessi dei negozi di dischi sono (erano) intellettuali della musica. Poi ci sono i docenti, dai maestri elementari ai titolari di cattedra universitari, passando per i prof della scuola media e gli insegnanti di Conservatorio.
Vogliamo poi, tra gli intellettuali della musica, citare anche i musicisti stessi? Sembrerebbe la cosa più logica, visto che almeno loro la musica dovrebbero pensarla di mestiere, sia come compositori che come esecutori. Certo non tutte queste categorie hanno la stessa responsabilità di fronte alla scomparsa della musica dal dibattito nella cultura contemporanea, ma a vario titolo, direttamente o indirettamente, tutti questi soggetti sono coinvolti.
Mario Gamba si riferisce alla musica che in Italia diciamo contemporanea, quella che si inscrive nel solco della tradizione classica e si distingue dalla musica di intrattenimento o commerciale, che non è mai stata presa in seria considerazione dagli intellettuali, almeno nel nostro paese. Pensa anche a quel panorama di musiche altre, definite di volta in volta eterodosse, sperimentali, di ricerca, che attingono al jazz, al rock, al folk e alla world music, ai suoni elettronici, insomma a quella no man’s land che ignora i confini di genere. È anche di questa musica che diciamo che manca dal dibattito culturale contemporaneo.
E qui le categorie diventano un problema, perché, per rimanere all’interno del quadro delle musiche dove la scrittura riveste un ruolo centrale, la patente di colto (cui si contrappone l’ancor più terrificante extra-colto) oggi appare di difficile attribuzione, inadeguata, o meglio ancora è forse un’etichetta da cui sfuggire a gambe levate. In effetti in nome di una presunta superiorità culturale in questi ultimi decenni si sono compiuti atroci misfatti e questo è forse una prima causa che spiega la crisi della riflessione critica sulla musica di oggi.
Forse i musicisti (i compositori) hanno meritato questo silenzio, perché troppo spesso la musica contemporanea colta è divenuta sterile in nome di una presunzione di superiorità culturale che in realtà ha nascosto uno sconfortante vuoto di idee e un’arroganza senza pari. È di pochi mesi fa una delle rare produzioni di teatro musicale contemporaneo in Italia. Nel fascicolo che funge da ricco programma di sala siamo informati circa la poetica dell’autore: "la musica “facile”, quella che perpetua la tradizione tonale, che sia di matrice colta, aulica o di matrice popolare, non gli appartiene. Non è con quel linguaggio che potrebbe mai prendere forma il messaggio profondo che sente di trasmettere." Come potremmo mai pretendere che ci sia ancora un pubblico disposto a prendere seriamente in considerazione proposte musicali che si trincerano dietro dichiarazioni di tale ingenuità e supponenza?
Naturalmente questo atteggiamento fuori dal tempo sopravvive solo in un ambito accademico ormai quasi del tutto scomparso ed in ogni caso esautorato di qualsiasi autorità, ma gli effetti negativi di questa cultura sono ancora presenti. Se la musica di oggi ha perso la capacità di incidere sull’immaginario contemporaneo (almeno considerando l’attenzione che le viene riservata dagli intellettuali) è anche perché, sull’onda di premesse ideologiche falsamente progressiste, ha dimenticato la materia della musica, cioè la musica che viene dal mondo e con la quale i musicisti si sono sempre confrontati. E a dire il vero molti musicisti questo lo hanno capito da parecchi decenni, hanno capito che non è questione di tonale o atonale, di colto o popolare, di facile o difficile.
Solo che la scuola, l’accademia, l’Università, i teatri di tradizione sono un po’ lenti a recepire, e così si procede stancamente, senza idee, senza curiosità per il presente. Proviamo a fare a meno per cinque anni di direttori artistici, di sovrintendenti e affidiamo il compito di gestire festival e programmi dedicati alla musica di oggi ai produttori discografici e ai musicisti stessi.
Avremo un bel risparmio di denaro e senz’altro un contatto decisamente più vero con la musica di oggi.
Naturalmente non permetteremo a nessuno di decidere il programma per due edizioni consecutive dello stesso festival o rassegna, e così saremo più sicuri di avere un panorama ampio e reale della straordinaria produzione musicale di oggi. Se abbiamo potuto ascoltare in due edizioni consecutive della Biennale di Venezia prima Don Byron e Bang on a Can, Steve Coleman e Henry Threadgill, e quindi il Klangforum Wien e Michael Nyman, Pennisi e Xenakis è perché Uri Caine e Giorgio Battistelli riflettono punti di vista sulla musica assai diversi e complementari (complementari non certo nel senso che esauriscono il panorama delle possibilità; semplicemente rappresentano due tra i tanti punti di osservazione possibili, per quanto autorevoli). Se l’uno o l’altro avessero detenuto per due decenni la direzione artistica della manifestazione le nostre possibilità di conoscenza si sarebbero drasticamente ridotte.
Certo non mancano festival, studi critici, persino riviste interamente o in parte dedicate alla musica contemporanea, e spesso pieni di novità interessanti e proposte di grande qualità.Ma la centralità che le vicende della musica possedevano negli anni ’60 e ’70 non è più pensabile. Almeno in Italia. La radio e la televisione poi, che in Europa sono dal secondo dopoguerra tra i principali committenti di nuove opere, da noi hanno ormai abbandonato questo campo della creatività musicale. Il radiodramma ad esempio, che all’estero non ha mai smesso di godere delle attenzioni delle emittenti di stato, in questi ultimi decenni è praticamente sparito dai palinsesti delle nostre reti radiofoniche.
Eppure gli esempi anche altissimi di riflessione sulla musica di oggi a guardar bene non mancano. E in ambiti capaci di coinvolgere le più grandi masse di pubblico. Raffinati intellettuali della musica sono oggi alcuni tra i registi cinematografici più in vista; David Lynch (che in Inland Empire utilizza composizioni di Krzysztof Penderecki e Witold Lutoslawski), Martin Scorsese (che nell’ultimo Shutter Island compila la colonna sonora pescando tra le più avventurose musiche degli ultimi decenni, da Ingram Marshall a Cage, da Feldman a Ligeti, da Brian Eno a Lou Harrison, da John Adams a Nam June Paik, da Max Richter a Giacinto Scelsi, da Alfred Schnittke a Penderecki). Lo è stato Stanley Kubrick (Ligeti la fa da padrone in 2001 Odissea nello spazio e ancora in Eyes Wide Shut).
Questi grandissimi registi hanno mostrato a tutti che la musica di oggi, anche quella più radicale ed estrema, può avere una straordinaria forza espressiva e può offrirci una visione autentica e ricca del nostro presente, così come in ogni epoca la musica ha saputo fare.
E non è questione di tonale o atonale. Ormai queste categorie appartengono a un dibattito che non ha più alcuna ragione di essere. Molta della musica per così dire di intrattenimento di oggi contiene raffinatezze e complessità che vanno ben al di là della banalità e superficialità di cui viene spesso accusata. Peggio ancora quei critici che accusano la musica di ricerca di essere malata di sterile intellettualismo poiché si allontana dal sistema tonale. Evidentemente non conoscono (o non riconoscono) le asimmetrie ritmiche di Aphex Twin, le raffinatezze timbriche di tanta musica elettronica, la complessità di scrittura di certo rock, la sconfinata apertura riscontrabile nell’universo delle musiche improvvisate, insomma la ricchezza che non è difficile trovare in tanta parte della musica non accademica.
Portiamo nei teatri l’ensemble Alarm Will Sound che esegue trascrizioni per orchestra da camera delle musiche di Aphex Twin o le composizioni di un musicista spettrale accanto a quelle di Keith Fullerton Whitman e John Luther Adams, la radicalità dei Polwechsel o le art songs di Corey Dargel, e vedrete che l’età media del pubblico che frequenta i teatri non aumenterà di un anno a ogni stagione. Senza rinunciare alla qualità e al rigore, ma lasciando a casa pigrizia e vecchi pregiudizi.
Tags: Alfabeta, Brian Eno, Don Byron, il manifesto, intellettuali, Marco Dalpane, Mario Gamba, Michael Nyman, musica, musica colta,
Commenti
bello scritto. ottimo
bello scritto. ottimo l'argomento che non si può proprio più perimetrare le musiche: le musiche sono un continente che è bene sia aperto da tutti i lati. del resto basta pensare a Deleuze e alle sue parole su territorio e deterritorializzazione. questo, però, dev'essere anche all'interno delle singole musiche, essere aperte, non deve valere solo come connessione e passaggio da un genere all'altro, che è quello che succede spesso con tante musiche "contaminate" che non valgono un tubo e spacciano equivoci "multiculturali" a tutto spiano. poi noto che tu, prendendo qualche spunto dal mio articolo su "Alfabeta2" n. 1 parli di intellettuali della musica. io però là parlavo degli altri intellettuali, in verità. e lamentavo che gli intellettuali italiani, letterati, saggisti, ecc. non si interessano della musica, non se ne interessano in quanto non ci vedono pensiero, non ci vedono la battaglia delle idee, la differenza dei punti di vista (trasformativo o conservativo o regressivo o altro, senza dicotomie ma anche senza indifferenza al conflitto). non è sempre stato così: esempio solito il Gruppo 63 che si riuniva in concomitanza non solo temporale e di luogo durante le settimane di Nuova Musica di Palermo. oggi gli intellettuali italiani consumano musica popular, e basta. e non pensano al pensiero della musica, nemmeno di quella popular, che ne contiene in ogni caso. gli itinerari di dissoluzione delle forme date, che pure contano qualcosa, anche se non vogliamo più rifarci al binomio tonalità-non tonalità (io ho sempre detto, casomai, superamento della centralità tonale, ma di ogni centralità, di ogni "ritorno a casa"), sono un tema cruciale che gli intellettuali italiani, specie giovani, ignorano letteralmente, non sanno di che cosa si tratta se si parla di musica. infatti non ne parlano, non includono la musica nel dibattito culturale. le colpe dei musicisti e degli intellettuali della musica, come dici tu, sono ancora maggiori. nella maggior parte dei casi sono di un provincialismo terrificante, spesso sono tecnicisti, quasi sempre non sanno parlare altro che di musica: politica, idee sul mondo e sui conflitti e sulle chances di trasformazione sociale: roba che non transita mai dalle loro bocche e dai loro scritti, suppongo nemmeno dai loro cervelli. così la musica nella vita culturale, che poi vuol dire politica in senso ampio, non esiste. l'informazione standardizzata fa il resto. tutto questo in Italia, altrove le cose vanno meglio.
Quoto completamente: già
Quoto completamente: già Schonberg nell'introduzione al suo manuale dell'armonia identificava nel comfort (si legga: pigrizia) la continua riproposizione di schemi di pensiero musicale sempre uguali. Non composizioni, siamo molto prima, la pigrizia attanaglia; si promuove solo ciò che già si conosce e per motivi talvolta davvero poco nobili. La vostra analisi mi sembra centratissima. Grazie, sarà condivisa..
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