Stefano Pastor e Kash Killion, un violino e un violoncello che sembrano sax e conttrabbasso. In Bows percorrono i sentieri dell'improvvisazione fino a riscoprire il segreto della musica degli schiavi neri. Quello che Duke Ellington definiva "il suono viola"
di Marco Buttafuoco
All’origine era l’Africa e quel suono che Duke Ellington chiamò "suono viola". Vago, indistinto, aspro all’orecchio occidentale, che è abituato a tonalità definite: “Una nota non è mai attaccata direttamente, ma lo strumento e la voce le si avvicinano dall’alto o dal basso, giocano intorno alla sua altezza senza mai soffermarvisi, e se ne staccano lasciandola in tutta la sua ambiguità. Il timbro è velato, parafrasato, tramite mutevoli vibrati, tremolii ed effetti armonici” (Amiri Baraka, Il popolo del Blues). Gli schiavi portarono quel suono nelle Americhe e quel suono diventò prima blues e poi jazz. Un linguaggio in qualche maniera oramai codificato, familiare, forse anche edulcorato.
C’è ancora qualcuno, tuttavia, che lavora alla ricerca di quel suono meticcio ed arcaico. Stefano Pastor è un violinista genovese che ha suonato anche nel gruppo di Paolo Conte ma che da anni batte i sentieri dell’improvvisazione radicale. All’attivo ha numerosi dischi (Chants in solitario, è il più adatto a chi voglia addentrarsi nel suo paesaggio sonoro). Si potrebbe definire, volendo usare banali e inutili classificazioni, un musicista di free jazz. Suona il violino con la mente rivolta a Charlie Parker, a John Coltrane, a Ornette Coleman. Ed è certo che il suo strumento abbia lo stesso respiro di un sax, e che il soffio della tromba di Chet Baker abbia molto da insegnare anche ad un violinista. Usa corde particolari per il suo strumento, al fine di creare quel suono rauco e apparentemente primitivo. E’ anche attento alla melodia (nel citato Chants si rivela anche discreto vocalist) ma i temi escono dalle sue quattro corde su timbri screpolati e riarsi.
Kash Killion, violoncellista, concittadino di Miles Davis, segue le stessa strada. Suona anche strumenti della tradizione musicale indiana, come il sarangi. Bows è la testimonianza del loro incontro. Un disco il cui il violino insegue la voce del sassofono e il violoncello quella del contrabbasso, dove il sarangi suggerisce sogni d’oriente, dove Pastor utilizza anche il flicorno in maniera straniata. Un lungo percorso di improvvisazione totale che si stempera alla fine in atmosfere più familiari. Il disco si chiude infatti con lo struggente tema monkiano di Ruby my dear reso con un ruvido abbandono.. Sempre a Monk, poeta dell’"imperfezione" per eccellenza, si rende omaggio anche nella quarta traccia, una rilettura di Epistrophy.
In Bows si respirano atmosfere da sperimentalismo stile anni '70. E’ animato da una poesia aspra, che non fa sconti all’ascoltatore, ma non certo per questo diventa fredda o scostante. Non è destinato a piacere a tutti, ovviamente. Ma ci dice che sotto le ceneri di tanto conformismo neo-bop, di tanto mainstream, brucia ancora la fiamma della ricerca. E questo è consolante.
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Stefano Pastor e Kash Killion, Bows, Slam Records 2010
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