Premiato a Cannes e censurato in Iran, I gatti persiani racconta il fermento culturale e non solo musicale di un paese in regime di oppressione, che trova nell’arte una ragione sia di vita che di protesta
di Marinella Doriguzzi Bozzo
Preceduto da un alone eroico, perché girato in poco più di due settimane e senza autorizzazioni governative, I gatti persiani ha vinto al Festival di Cannes del 2009 il Premio speciale della giuria. In Iran è poi stato distribuito gratuitamente per le strade dallo stesso regista Bahman Ghobadi, dopo l’incarceramento e la successiva uscita di prigione. Documenta il fermento culturale e non solo musicale di un paese in regime di oppressione, che trova nell’arte una ragione sia di vita che di protesta.
Speculare al film russo Il concerto (leggi la nostra recensione), attualmente anch’esso in programmazione nelle sale italiane, ne rappresenta in qualche modo la negazione dal punto di vista strutturale. Tanto il primo è frutto di uno sguardo retrospettivo attualizzato, caricaturato, enfatizzato, e costruito programmaticamente a tavolino ad uso e consumo sia della lacrima come del sorriso commercialmente intesi, tanto questo è fresco e spontaneo, anche se a sua volta mai improvvisato, bensì strappato e ricucito con una certa sapienza, ma senza sprechi emozionali.
Siamo in una Teheran che ci sembra di conoscere, perché se ne parla e se ne legge. Ma di cui sappiamo ancora meno, di fatto, degli stereotipi che girano sul nostro paese - mandolini, spaghetti, pizza - e che tanto ci offendono. E siamo in un labirinto sotterraneo fatto di catacombe, di saliscendi, di scale, di sussurri, di clandestinità, anche quando le sale di prove musicali non sono nel sottosuolo, ma coabitano con le mucche o sfiorani i cieli dai tetti delle case.
Perché di giovani e di musica parliamo: musica nella sua versione più larga, imitativa ed adattativa, dal rock indie, al rap, al folk locale contaminato. Musica come tempo di sottrazione ad una vita collettiva estranea e come desiderio di raggiungimento del sogno dell’altrove, ovviamente sotto forma di occidente, di diversità, di distinzione dall’asservimento ad un regime. Giovani nell’accezione sempre più adulta del termine, che si allontanano veloci dai 20 anni per approdare alla pienezza dei 30/40 ancora incerti del loro futuro. Perché c’è chi si predispone a trattare l’arte come un mezzo per lasciare un paese oscurantista e chi viceversa suona e canta clandestinamente per testimoniare la vitalità di una opposizione.
Lo schema narrativo è semplice e composto da segmenti tutti simili: un terzetto formato da due musicisti maschio e femmina e dal loro improvvisato, parolaio e esuberantemente ottimista "manager" (Negar Shaghaghi, Ashkan Koshanejad, Hamed Behdad); la ricerca di altri elementi per mettere insieme un gruppo; le vie traverse per procurarsi i passaporti e i visti per l’espatrio e per il rientro.
Perché nessuno, di fondo, è disfattista o martire. E questa fraternità di adepti che sale e scende in gironi infimi, spelacchiati, odoranti e oscuri, viene ogni tanto redenta dalla prova di un pezzo musicale. E mentre la bella colonna sonora va, la macchina da presa regolarmente stacca e s’aggira "fuori", ossia nel quotidiano di tutti. E Teheran si disvela simile ad una qualsiasi nostra città - in particolare Genova - o allo skyline di un’America di grattacieli più brumosi e lontani; ma al tempo stesso arcaicamente contaminata, in un trascorrere di passi, di facce, di auto, di strade, di panorami lontani, come di colori e di odori antichi o quasi prossimi, sino al ritorno circolare sul punto da cui il film era iniziato.
Privo della rotondità e del didattismo della parabola, nonchè del ricatto della testimonianza nel senso greco del martirio, è una pellicola amatoriale e insieme professionale, giocata sul qui-e-ora e sul domani-e-altrove. E più che sottolineare la circolarità, la pervasività e l’assenza di frontiere della musica (ci rifiutiamo di usare il termine trasversalità), testimonia come per dare il meglio di sè si debba vivere tra le polarità dell’attesa e della speranza, mediate dall'espressione dell'io e dei suoi talenti, soprattutto in una età in cui diventare adulti vuol dire acconsentire, mentre rimanere giovani vuol dire resistere ancora alla forza e all'inganno.
Rispondendo non tanto al quesito sul come documentare narrando con sobria vitalità dei fatti seri quando non tragici, bensì alla domanda se ci si possa consolare dall'ingiustizia del gretto sopruso. E la risposta è sì. Se ne esce in qualche modo incoraggiati a resistere, anche se non si sa bene esattamente perché. Ma forse a chi e a cosa.
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I GATTI PERSIANI, di Bahman Ghobadi, Iran 2009, 106 m.
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