In Viva la Libertà Toni Servillo si sdoppia: è il leader "latitante" di un partito favorito alle elezioni, ed è il suo gemello con problemi psichici. Recuperato dall'assistente personale (Valerio Mastandrea) del primo per rimpiazzare il fratello, finisce per cambiare davvero le cose. Una riflessione politico-esistenziale alla vigilia delle elezioni
di Marinella Doriguzzi Bozzo
Questo è un film che sollecita contemporaneamente due facoltà opposte: la memoria e l'oblio. Per quanto concerne la memoria, i filoni si sdoppiano e si ritorna da un lato al film Il portaborse di Daniele Lucchetti (1991) che re-inaugurava il filone politico-civile poi portato avanti da Nanni Moretti con il Caimano (2006). Entrambi profetici per difetto, con l'allora onorevole Giulio Di Donato appostato nottetempo fra i velluti rossi delle poltrone per vedere il primo e dare immantinente fiato a tutto lo sdegnato orgoglio socialista, liquefatto pochi mesi dopo dallo scandalo di Tangentopoli. Affabulatorio come una fenice il secondo, ad annunciare ceneri e rinascite di derivazione craxiana e di deriva berlusconiana.
Dall'altro lato del ricordo si vaga nelle reminiscenze scolastiche, a recuperare il tanto sfruttato tema drammaturgico del doppio o del sosia, magari in riferimento ai gemelli Menecmi di Plauto (III secolo A.C.) passando attraverso i secoli fino all'Io diviso di Ronald Laing (1960).
Invece l'oblio richiesto è quello di resettare le suggestioni citate, perché alla fine ci si rende conto di aver assistito ad una allegoria intrisa sì di entrambi gli elementi, ma portati sul piano originale della metafora - se per metafora intendiamo un verità tanto particolare quanto generale, spremuta in poche gocce essenziali da un limone che sta marcendo.
L'elemento generale è costituito dai tempi nostri, in cui un allusivo eppur anonimo partito di opposizione oscilla fra la paura di perdere e quella di vincere le elezioni, mentre il suo leader trova nell'autoeclissi l'unica via d'uscita alla autunnale ripetizione di se stesso. In qualche modo ricongiungendosi alla propria ancora non snaturata giovinezza, sotto forma di un ritrovato interesse per il cinema e per una donna, che amorosamente coincidono in quel di Francia. Mentre l'assistente personale si destreggia per eluderne la scomparsa, finché il caso lo porta a recuperare il gemello alienato e psichicamente disturbato del leader. Quest'ultimo, disponendo di una meditata cultura e non avendo niente da perdere né da guadagnare, lo sostituisce insospettato con una tale rivoluzionaria veridicità da suscitare l'entusiasmo sia dei detrattori che delle masse.
L'elemento particolare è adombrato nel rapporto di coincidenza-rivalità fra il capopartito e il proprio gemello, che porta alla ribalta il meno libero e più assuefatto al compromesso, mentre quello studioso, affascinante, profondo, anticonformista resta rinchiuso per anni in una casa di cura. Fino al capovolgimento degli esiti, con un magnifico finale esplicito e insieme ambiguo, in cui non si adombra teatralmente l'effetto comico degli equivoci, quanto quello esistenziale sulla possibilità di perdersi, di cambiare e di ritrovarsi, ossia di perdonarsi non solo il male che si è fatto agli altri, quanto i tradimenti che si sono perpetrati innanzitutto nei confronti di se stessi.
Non si pensi tuttavia ad un film a chiave, in cui l'implicito induce a scatenare una sorta di "ruzzle" per indovinare-ricostruire un certo partito o determinati personaggi politici. Se si andasse in cerca di un voyeuristico buco di serratura o di una panoramica di circostanziata denuncia si rimarrebbe delusi. Come il titolo originale del libro scritto dallo stesso regista (Il trono vuoto, poi semplificato, un po' alla Benigni, in Viva la libertà) si tratta di un apologo in cui l'oscillare fra stanchezza, disperazione e sollievo adombra sia un sentimento collettivo sia una percezione individuale dell'attualità, scanditi e sovrapposti secondo una compenetrazione equilibratissima di atmosfere talvolta quasi oniriche e di dettagli gnomico-realistici.
La coincidenza fra romanziere e regista assicura una sensibilità particolare ed una compattezza invidiabile, tali da trasmettersi anche alla sceneggiatura ben tagliata e montata di Marco Carluccio, alla colonna sonora di Marco Betta e alla recitazione di Toni Servillo, che riesce nel salto mortale di essere due in uno senza fagocitare la pellicola, mentre Valerio Mastandea è al meglio della sua mimesi attoriale e fisica.
Dopo le magniloquenze più o meno officianti di molti recenti film hollywoodiani, finalmente un film nostrano che recupera per accenni significanti, con sicurezza e calibrata umiltà, la pregnanza civile ed esistenziale dei rapporti fra i cittadini e la politica, le oligarchie egemoni e le masse indifese, l'ego e l'alter ego di ognuno ("Oggi è la paura la musica della democrazia". "L'unica alleanza possibile è con la coscienza della gente"). E non a caso accenna alla salvezza tramite una cultura umanamente e disinteressatamente declinata (da Hegel, a Brecht, a Fellini, agli haiku giapponesi...) fornendo un raro esempio di sofisticazione anche elaborata, eppure funzionale all'edificazione di tutti: come padroneggiare con calcolata semplicità e ispirata grazia proprio quei cortocircuiti inventivi fra punti di vista, contenuti e rappresentazione di cui si parlava nella recensione di Lincoln.
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Viva la libertà di Roberto Andò, Italia 2013, 94 m
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