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FILM

Il Gioiellino, giallo italiano

Ascesa e caduta della Parmalat. Andrea Molaioli porta sul grande schermo le storture del capitalismo italiano. Tra un Remo Girone troppo mite e un Toni Servillo appiattito sui suoi precedenti personaggi, più che un film di denuncia sembra un thriller: in cui il colpevole - cioè il responsabile delle truffe e della finanza creativa - alla fine non viene individuato 


di Simone Dotto

 


Think locally, act globally. Quando si dice la cattiva globalizzazione. Questo sta a simboleggiare la Leda (leggi Parmalat), che in dieci anni da casa produttrice di latte a gestione familiare si ritrova a essere una multinazionale a investimento diversificato - ma pur sempre a gestione familiare. Sotto l’egida di un uomo tutto casa, azienda e chiesa come Amanzio Rastelli, lavora da sempre il ragionier Botta, uno che il suo impiego di stratega economico se lo porta dietro anche nei weekend.
 
Eppure non basta: in ossequio ai soliti vincoli di sangue, gli verrà affiancata come assistente la nipote del padrone. Che è fresca di studi, conosce la borsa, ha seguito un master negli Usa, dice “core-business” e “tycoon”. E che seduce fatalmente il ragioniere, forse per la prima volta in vita sua distratto da qualcosa che non sia il lavoro. Dopo un’iniziale, fisiologica diffidenza, old e new economy finiscono a letto insieme e, se passate il termine, si “fottono” a vicenda. Da qui in poi, per la Leda sarà discesa libera.
 
L’esportazione del made in Italy, in una storia di capitalismo provincialotto e di finanza che si improvvisa “creativa”: ecco quello che Il Gioiellino, seconda regia di Andrea Molaioli (La ragazza del lago) vorrebbe raccontarci. Vorrebbe perché, nei fatti, il film è altra cosa. Dalle pellicole di inchiesta civile e sociale eredita solo la parte peggiore, una certa legnosità nella storia e dei personaggi tratteggiati per sommi capi.
 
E se l’imprenditore di Remo Girone è sì familista, ma forse troppo cattolico e mite per ricordare il perfido Tano Cariddi de La Piovra, stavolta l’interpretazione di Toni Servillo soffre la mancanza di un vero disegno psicologico su cui lavorare, e funziona più come maschera che non per veri meriti attoriali. Il tramare nell’ombra del suo Ernestino, sempre ai limiti della legalità, rimanda ora al taciturno trafficante Titta Girolamo de Le conseguenze dell’amore, ora al camorrista in doppio petto di Gomorra, ora persino a quel concentrato di poteri, leciti e meno, che animava il personaggio di Andreotti ne Il Divo, dal quale vengono riprese anche alcune ambientazioni. Guarda caso, tutti titoli che, secondo una celebre recensione cumulativa, “fanno fare una brutta figura all’Italia nel mondo”.
 
Un elenco a cui potremmo aggiungere anche Il Gioiellino, se non fosse che per essere un film di denuncia manca di un particolare importante: la denuncia. In un sistema dove ogni personaggio è chiamato a rappresentare qualcosa (Girone, l’imprenditoria vecchia maniera; Servillo, l’inossidabile etica del lavoro, Sarah Fielberbaum la spregiudicatezza del nuovo che avanza; il commercialista suicida di Sciarappa il cuore buono e produttivo del capitalismo…) possibile che nessuno si presti a fare la parte dell’assassino? Perché qui si grida ai rischi di una finanza spericolata ma senza saperla riconoscere e identificare con precisione.
 
Detta in termini borsistici, Molaioli diluisce le colpe fra tanti, troppi azionisti, ognuno dei quali avrà poi comunque un buon alibi per potersi smarcare. La responsabilità non può certo essere attribuita al solo Rastelli, trascinato dagli eventi ma solo per il genuino attaccamento affettivo alla sua Leda. E persino il personaggio di Servillo che ammette a se stesso il reato pronunciando le fatidiche parole (“inventiamoceli, questi soldi!”), lo fa in buona fede, convinto che una manomissione serva solo a temporeggiare e rimettere in sesto le cose. 
 

Ma allora chi - o cosa - ha trascinato la piccola economia italiana verso la finanza acrobatica e senza rete? Beh, stando a questo film, un po’ tutto e un po’ tutti: un po’ gli americani profittatori e un po’ le tendenze storiche, naturali (?) del mercato. Un po’ i senatori maneggioni e un po’ anche Lui. Proprio Lui, quello là, che a un certo punto accetta anche di accogliere un Rastelli ormai disperato nella sua villa – ma solo per parlare di calcio e raccontarsi un paio di barzellette.
 
Malapolitica, economia, società: la colpa, insomma, è del sistema, che è come dire di tutti e di nessuno. Per questo, a conti fatti, Il Gioiellino viene ad assomigliare a La ragazza del lago più di quanto potesse sembrare al principio: perché si tratta anche in questo caso di un giallo. Un giallo con tante responsabilità, tante vittime e nessun colpevole, un giallo che nemmeno l’autore riesce a risolvere. Un giallo italiano. 



Tags: andrea molaioli, il gioiellino, la piovra, la ragazza del lago, leda, parmalat, recensione, remo girone, Simone Dotto, toni servillo,
03 Marzo 2011

Oggetto recensito:

Il Gioiellino, di Andrea Molaioli, Italia/Francia 2011, 110 m

 

giudizio:



8.505
Media: 8.5 (4 voti)

Commenti

Purtroppo quella finanza

Purtroppo quella finanza creativa drogata ha fatto tanti danni sopratutto a famiglie. Ben vengano comunque questi film che anche se non sono reali fanno capire come si muovono certi squali con l'appoggio di certi politici.

Finanza creativa e drogata

Finanza creativa e drogata una buona rilettura del crac Parmalat (certamente non documentarista)

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