Ascesa e caduta della Parmalat. Andrea Molaioli porta sul grande schermo le storture del capitalismo italiano. Tra un Remo Girone troppo mite e un Toni Servillo appiattito sui suoi precedenti personaggi, più che un film di denuncia sembra un thriller: in cui il colpevole - cioè il responsabile delle truffe e della finanza creativa - alla fine non viene individuato
di Simone Dotto
Eppure non basta: in ossequio ai soliti vincoli di sangue, gli verrà affiancata come assistente la nipote del padrone. Che è fresca di studi, conosce la borsa, ha seguito un master negli Usa, dice “core-business” e “tycoon”. E che seduce fatalmente il ragioniere, forse per la prima volta in vita sua distratto da qualcosa che non sia il lavoro. Dopo un’iniziale, fisiologica diffidenza, old e new economy finiscono a letto insieme e, se passate il termine, si “fottono” a vicenda. Da qui in poi, per la Leda sarà discesa libera.
E se l’imprenditore di Remo Girone è sì familista, ma forse troppo cattolico e mite per ricordare il perfido Tano Cariddi de La Piovra, stavolta l’interpretazione di Toni Servillo soffre la mancanza di un vero disegno psicologico su cui lavorare, e funziona più come maschera che non per veri meriti attoriali. Il tramare nell’ombra del suo Ernestino, sempre ai limiti della legalità, rimanda ora al taciturno trafficante Titta Girolamo de Le conseguenze dell’amore, ora al camorrista in doppio petto di Gomorra, ora persino a quel concentrato di poteri, leciti e meno, che animava il personaggio di Andreotti ne Il Divo, dal quale vengono riprese anche alcune ambientazioni. Guarda caso, tutti titoli che, secondo una celebre recensione cumulativa, “fanno fare una brutta figura all’Italia nel mondo”.
Detta in termini borsistici, Molaioli diluisce le colpe fra tanti, troppi azionisti, ognuno dei quali avrà poi comunque un buon alibi per potersi smarcare. La responsabilità non può certo essere attribuita al solo Rastelli, trascinato dagli eventi ma solo per il genuino attaccamento affettivo alla sua Leda. E persino il personaggio di Servillo che ammette a se stesso il reato pronunciando le fatidiche parole (“inventiamoceli, questi soldi!”), lo fa in buona fede, convinto che una manomissione serva solo a temporeggiare e rimettere in sesto le cose.
Ma allora chi - o cosa - ha trascinato la piccola economia italiana verso la finanza acrobatica e senza rete? Beh, stando a questo film, un po’ tutto e un po’ tutti: un po’ gli americani profittatori e un po’ le tendenze storiche, naturali (?) del mercato. Un po’ i senatori maneggioni e un po’ anche Lui. Proprio Lui, quello là, che a un certo punto accetta anche di accogliere un Rastelli ormai disperato nella sua villa – ma solo per parlare di calcio e raccontarsi un paio di barzellette.
Malapolitica, economia, società: la colpa, insomma, è del sistema, che è come dire di tutti e di nessuno. Per questo, a conti fatti, Il Gioiellino viene ad assomigliare a La ragazza del lago più di quanto potesse sembrare al principio: perché si tratta anche in questo caso di un giallo. Un giallo con tante responsabilità, tante vittime e nessun colpevole, un giallo che nemmeno l’autore riesce a risolvere. Un giallo italiano.
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Il Gioiellino, di Andrea Molaioli, Italia/Francia 2011, 110 m
Commenti
Purtroppo quella finanza
Purtroppo quella finanza creativa drogata ha fatto tanti danni sopratutto a famiglie. Ben vengano comunque questi film che anche se non sono reali fanno capire come si muovono certi squali con l'appoggio di certi politici.
Finanza creativa e drogata
Finanza creativa e drogata una buona rilettura del crac Parmalat (certamente non documentarista)
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