Come sarebbe un film girato da uno stilista dell'alta moda? A single man di Tom Ford è la risposta: elegante, raffinato, impeccabile
di Andrea B. Previtera
La prima prova alla regia di Tom Ford risponde ad una di quelle domande da serata tra amici, posta così per scherzo, distrazione o fantasia: “Come sarebbe un film girato da uno stilista d’alta moda?”. Elegantissimo. Misurato. Glaciale.
A Single Man, trasposizione cinematografica del libro omonimo di Christopher Isherwood, è un esercizio di stile che regala al pubblico – al di là di un messaggio profondo ma pur sempre lievemente trito – una parentesi di estraniazione dalla volgarità di tempi, forme e modi dei nostri giorni.
Ford fa di ogni cosa veicolo di questa bellezza fredda e mai fuori luogo, un bicchiere d’acqua immoto colmo esattamente fino all’orlo senza che una goccia ne varchi i margini: la perfezione degli abiti, la cadenza dei dialoghi, la bidimensionalità delle scene – un fotoromanzo d’autore, raffinatissimo.
La storia: 1962, George Falconer (Colin Firth) è un docente di lingua inglese che ha appena perso il proprio compagno (Matthew Goode) in un incidente stradale, e con questi l’amore della vita – e per la vita. Nella Los Angeles sospesa nel sonno del ventennio postbellico, lo studio minuzioso di un suicidio, la dissezione del tempo, le tensioni con la mai-amica Charley (Julienne Moore), la riemersione insperata.
Firth è impeccabile, la pellicola lo impone. L’attore rispetta tutti i parametri dell’eccellenza e si fa interprete perfetto della vertigine del dolore e dell’amore dissimulati ad ogni costo. Tom Ford danza con il protagonista in un valzer di appena novantanove minuti, sufficienti però a tracciare in pochi volteggi il Sentimento con l’iniziale maiuscola, senza mai svilirlo o blandire gli spettatori.
La tecnica al servizio della bellezza: in un ulteriore balletto, il montaggio a volte delinea e a volte insegue il palpitare lento e profondo degli eventi, quello di un cuore dai battiti forti ma spezzati. Vera opera d’arte la fotografia, che trascende la classica reinterpretazione del colore e va oltre, in profondità, a strappare via ogni residuo di terza dimensione (con buona pace dell’ultima moda a base di occhialini di plastica). Una fotografia emozionale che fa da tornasole al pulsare della vita nelle vene del protagonista: i colori virano improvvisamente – e con grande coraggio senza stacchi scenici – dal gelo di fondo a tinte ora vivaci, ora struggenti.
E’ forse questo rigore estremo l’unico vero difetto di A Single Man, ma i rari episodi a sfondo apparentemente comico ed il sarcasmo pungente del protagonista non costituiscono facili espedienti per “spezzarlo”: se potete, non ridetene in sala. C’è una bolla di sapone che vale davvero la pena lasciare intatta.
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A single man, di Tom Ford, usa 2009, 99 M.
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