L'epidemia di tisi, l'amore, la morte e il pessimismo cosmico farebbero pensare a un epigono del Bufalino de La diceria dell'untore. E invece Gli Addii dell'autore sudamericano, pubblicati per la prima volta nel '54, è un lavoro ben diverso, un'opera di surrealismo tragico dove si rimane ammaliati anche senza capirci molto...
di Dario De Marco
Un sanatorio fuori dal mondo, un protagonista votato alla rassegnazione, ombre femminili che gli danzano attorno, medici infermieri e altre irreali comparse, l'amore e la morte, la tisi che non fa soffrire più di tanto ma che aspetta inesorabile in fondo al cammino. Che libro è? Ma certo, Diceria dell'untore, Gesualdo Bufalino. E invece no: si tratta di Juan Carlos Onetti, Gli addii.
Certo la suggestione è forte, ma al di là dell'ambientazione, dell'epoca in cui sono stati scritti (nel 1954 Gli addii, mentre la Diceria, anche se uscirà nell'81, era stata iniziata nel '50), e di un certo affascinante manierismo stilistico (però molto più da urlo in Bufalino), i due libri non hanno molto in comune. Non solo perché l'untore a sorpresa sopravvive, mentre l'ex cestista de Gli addii inevitabilmente muore (no spoiler: lo scrive Onetti nella prima mezza pagina); non solo perché nella Diceria, a dispetto della reclusione dei personaggi, c'è sviluppo, c'è azione, ci sono fatti, un inizio e una fine, mentre ne Gli addii, anche se il protagonista si aggira tutto sommato libero tra un albergo e una casetta in affitto, impera la stasi, i movimenti sono come vischiosi. È che Diceria dell'untore è un romanzo filosofico, una riflessione su come cambia il senso della vita quando si coabita con la morte, e viceversa. Mentre Gli addii è... beh il libro di Onetti è... come dire, mah!? Ripartiamo daccapo.
Juan Carlos Onetti (1909-1994), uruguayano, autore di numerose opere narrative, definito da Cortàzar il più grande romanziere sudamericano, e da quasi tutti accostato a Willam Faulkner. Sarà. A me ha ricordato un Borges (e te pareva), quel libro scritto insieme a Bioy Casares dove c'è Isidro Parodi che risolve enigmi polizieschi senza muoversi dalla sua cella. In questo caso a non muoversi dal suo posto è il gestore del bar, che ci racconta la storia: vede arrivare in paese il protagonista, e poi gli tiene da parte le lettere, e poi vede transitare dal locale la sua donna, e poi un'altra sua donna. Non solo non risolve nessun mistero, questo narratore tutt'altro che onnisciente, ma non ci capisce quasi nulla: un po' perché il protagonista, che a un certo punto si scopre essere stato un campionissimo di basket, gioca a fare il reticente e a non mischiarsi con nessuno; un po' perché i fatti che si svolgono davanti ai suoi occhi sono solo una minima parte; un po' perché gli altri fatti gli arrivano di seconda o terza mano, e quindi a noi che leggiamo di terza o quarta mano: avete presente quel gioco che si fa da bambini, telefono senza fili mi pare, in cui ognuno sussurra una parola nell'orecchio di chi gli sta a fianco, e alla fine si raffrontano la parola iniziale e la sua deformazione finale, tra le risate di tutti? Ecco, noi siamo gli ultimi della catena, ma la prima parola non viene svelata mai.
Che poi, non è neanche vero che non succede niente, verso la fine ci sta pure una specie di colpo di scena, che naturalmente non riguarda la vicenda, i fatti che accadono nel presente, ma il passato, cioè i fatti che vengono ricostruiti, che si sommano alla giungla di ipotesi, illazioni, proiezioni che il narratore e le altre comparse fanno. Insomma ancora una volta il senso ultimo sfugge, e il forte sospetto è che ci sia una decisa intenzionalità dell'autore: una sottrazione di senso, ma non maliziosa, quasi dolente, compassionevole (con noi che leggiamo, s'intende).
Sfugge però anche il senso del fascino stregato di questo romanzo: perché è così ammaliante? Meglio lasciare la parola a chi se ne intende: “Malgrado i suoi personaggi non sfuggano alla banalità quotidiana, né alle frasi fatte dei colloqui dialettali, in genere si muovono (a volte si potrebbe dire che fluttuano) su un piano che ha qualcosa di irreale, di allucinato, nel quale i dettagli inverosimili sono poco più che deboli imbastiture”.
Così Mario Benedetti, altro scrittore uruguayano, nel saggio su Onetti posto alla fine del romanzo. E già, perché la Edizioni Sur, costola di Minimum fax nata da poco e specializzata in sudamericani, fa queste cose meravigliosamente anacronistiche: copertine rigide, prefazioni (stavolta di Antonio Muñoz Molina), postfazioni, e il tutto pure per un prezzo modico; inoltre il suo modello commerciale è basato sul bypass della grande distribuzione tradizionale e sul rapporto diretto con i librai indipendenti (ho detto anacronistico: letteralmente, fuori dal tempo presente, ma non necessariamente legato al passato. Potrebbe anche essere il futuro).
Ancora Benedetti, che centra il punto: “Onetti crea un'atmosfera fantasmagorica, irreale, senza ricorrere a nessuno degli stratagemmi della letteratura fantastica, ma semplicemente avvalendosi di convenzioni realiste, di dialoghi credibili, di individui sconfitti, di monologhi interiori che soffrono solo dell'improbabilità di essere troppo ben scritti”. Che dire. Sur, benemerita, pubblicherà un po' alla volta tutte le opere di Onetti. Avremo modo di approfondire, di leggerne di più, di capirci di meno.
(In contemporanea su www.dariodemarco.wordpress.com)
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Juan Carlos Onetti, Gli addii, Edizioni Sur 2012, p 131, 14 euro
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