Discusso e un po' penalizzato al Festival di Cannes per via delle esternazioni antisemite del suo regista, Melancholia immagina uno scenario fantascientifico e apocalittico. Come le due sorelle protagoniste reagiscono all'avvicinamento di un pianeta che incrocerà la traiettoria della terra, distruggendola
di Marinella Doriguzzi Bozzo
La possente e struggente musica del Tristano e Isotta di Wagner non irrompe nella sala, ma sembra fermare le immagini sullo schermo in una sorta di minacciosa attesa, mentre dall’alto piovono le sagome distorte in cenere di uccelli, simili a foglie. Questo è il prologo del film che, almeno inizialmente, sembra proporsi le vette immaginifiche de Tree of life di Terrence Malick (vedi recensione) mentre è invece in grado di semplificarne lo spirito, senza cadere negli abissi di goffaggine di una pellicola che veniva premiata da quello stesso Festival di Cannes che nel contempo radiava Lars von Trier per le sue imperdonabili - e sciocche - dichiarazioni antisemite.
Restava però la Palma d'oro assegnata alla protagonista Kirten Dunst come migliore attrice, non potendo - per coerenza - riconoscere diversamente la grandezza di questa opera. Il titolo è lo stesso della celebre incisione di Dürer (1514), probabile allegoria alchemica dell’impossibilità di modificare il piombo delle anime perdute nell’oro delle anime salvate. Tema che in qualche modo sembra ispirare – rovesciandolo - anche l’assunto del film, benché la Melancholia del regista danese sia il nome di un pianeta che sta per incrociare la traiettoria della Terra.
Il pianeta a poco a poco si avvicina come una livida luna domestica, poi sembra allontanarsi e infine, inevitabilmente, collide. Con una delle più commoventi scene finali che il cinema ci abbia mai regalato negli ultimi anni.
Di ispirazione solo apparentemente fantascientifica, il film è in realtà la trasparente metafora sia ecologica che intimista di due diversi comportamenti all'approssimarsi della morte: è quieta, determinata (e perciò salvifica) la risposta dell'anima perduta, in grado di mettere in progressiva discussione i riti della tradizione, fino a vanificarli per poi affrontare l'ultimo momento con la calma lieve e soccorrevole di chi non ha nulla da perdere, perché già sa. E, sapendo, deve a ruoli invertiti distribuire l'estremo viatico al nipotino e alla sorella, che viceversa si consuma nell'incertezza inquieta dell'attesa. Perché madre, perché moglie, perché ordinata responsabile di un ruolo; perché, appunto,"normale".
Proprio la distruzione comporta a sua volta la contraddittoria visione di una Terra "cattiva" ormai insterilita, e quindi passibile di una fine e il conseguente goethiano rimpianto sulla bellezza dell'attimo di vita che fugge. Con una grazia di ispirazione che permea anche tecnicamente tutta la pellicola, mai appesantita dal geniale miscuglio di allusioni alte (il già citato Dürer, Brueghel, Caravaggio, Millais, Tarkovskji) bensì fruibile come un meraviglioso racconto anche da parte dello spettatore meno avvertito. Che stenterà magari ad accettarne l'assunto finale (benché trasfigurato da un tocco di sublime poesia) che porta a concludere in un modo amaro quanto ecumenico: la distruzione simultanea che tocca egualitariamente tutti, come un ultimo atto di giustizia a suo modo assolutorio. Non diversamente dal senso di questi bellissimi versi di Giovanni Raboni: "Si farà una gran fatica, qualcuno / direbbe che si muore - ma a quel punto /ogni cosa che poteva succedere / sarà successa e noi / davanti agli occhi non avremo / che la calma distesa del passato /.... / E tutto, anche le foglie che crescono, / anche i figli che nascono / tutto, finalmente, senza futuro".
Tags: Apocalisse, Cannes, Durer, Kristen Dunst, Lars Von trier, Marinella Doriguzzi Bozzo, Melancholia, recensione, Terrence Malick,
Melancholia di Lars Von Trier, Danimarca Francia Svezia Germania 2011, 130 m
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