Paesaggi e colori di una Turchia incantata scorrono placidi di fronte agli occhi dello spettatore di C'era una volta in Anatolia. L'antiepica nazionale raccontata dal regista Nuri Bilge Ceylan fa della lentezza un'arte e una filosofia: saremmo in zona capolavoro, se solo il film sapesse finire come si deve
di Marinella Doriguzzi Bozzo
Un crepuscolo color melanzana trascolora nella notte, confondendo le tracce di una strada campestre, lisa come una fettuccia usata. Intorno, i neri, i verdi e i blu cupi dei fogli piatti di una carta da presepio ingobbiti a simular colline. Tre auto in fila, come un bruco luminoso, inquadrano a tratti con i fanali una fontana primitiva, la rappresentazione infantile di un albero, degli spiazzi arati. A bordo, un'umanità gerarchizzata secondo l'ingenua simulazione di un'organizzazione occidentale, tipica dei periferici poveri che si sentono lontani da tutto. Poliziotti goffi, un medico legale ed un procuratore con dei problemi di prostata discorrono ora distratti, ora concitati, illustrando per infinitesime approssimazioni non solo il senso della missione, ma anche i contorni delle proprie vite e dei rapporti. Quasi sempre parlano d'altro e ingannano un tempo che sembra non finire mai, mentre si cerca per reiterati tentativi il luogo in cui un reo confesso ed il suo complice avrebbero sotterrato il corpo dell'uomo che hanno ucciso.
Comincia e continua così un film che fin dal titolo ha tutto l'umile sapore di una contro-epopea, e che incanta già dai primi minuti per una precisa scelta di stile, attingendo la sua forza da una poetica, ordinaria lentezza. Facce come simboli, dettagli come rivelazioni, pause come interstizi significanti, parole che potrebbero cadere lì come altrove, e che a poco a poco lasciano intuire il profilo psicologico di un paese sprofondato in un buio rurale vagamente apparentabile ai nostri anni '40, e che viceversa anelerebbe ad entrare in Europa.
La formula di un minuzioso, ironico, continuo ma quasi impercettibile controcanto si potrebbe riassumere nella antitesi tra il significato etimologico di Anatolia ( che in greco significa "sorgere del sole") e l'oscurità ossessiva in cui è immersa quasi tutta la pellicola. Con il ritmo e il fascino di quelle notti condivise che inspiegabilmente rimangono poi nella memoria come delle rivelazioni di senso, afferrato per un attimo e poi perduto, ma il cui ricordo perdura allusivo, simile allo squarcio di un mistero.
Ingegnere elettronico appassionato di fotografia, pluripremiato anche per i precedenti Usak (2002) e Le tre scimmie (2008) il regista turco Nuri Bilge Ceylan dimostra di conoscere bene l'incanto del proprio mestiere attraverso un magistrale e personalissimo impasto di immagini e parole: location perfette, modo secco di girare privilegiando le inquadrature fisse e frontali, contrasti pittorici illustri di luci e di ombre - de La Tour- stillicidi di dialoghi dovuti ad un copione cesellato in stato di grazia,attori dimessi e fisiognomicamente perfetti. Sino a venti minuti dalla fine.
Un po' come Baricco nel suo penultimo libro- Mr Gwyn- anche Ceylan, proprio sul filo di lana, si lascia inspiegabilmente afferrare dal panico del non romanzesco rispetto al fascino del romanzesco; e non solo accelera inopinatamente, ma introduce rabbocchi narrativi ridondanti,già perfettamente intuibili dal gioco allusivo dei preliminari. Quasi a sconfessare l'originaria, magnifica scelta di tono, che renderebbe questo film un possibile capolavoro, se solo avesse saputo arrestarsi sull'ultima frase notturna intorno al non senso del destino. Invece, con l'irrompere della luce del giorno, l'opera non sa più a terminare: un difetto, questo, in comune con molte altre pellicole contemporanee, che non solo rilanciano inutilmente, ma portano la propria durata oltre i limiti del tollerabile e annacquano con autolesionismo molte felici intuizioni.
Sfiducia nella capacità interpretativa degli spettatori? Necessità di aggiungere rossinianamente degli ultimi colpi di gran cassa ad effetto? Smania puntigliosa di perfezionismo? Dubbi sulle ellissi del raccontare e orrore della sintesi? Quando si sceglie la lentezza non come mera cifra temporale, ma come rappresentazione dell'esistere narrato, bisognerebbe avere il coraggio di mantenerla sino in fondo, in omaggio al fatto che il romanzo taglia le lunghe pause del quotidiano in favore dell'azione e del plot, mentre la vita è una trama intrisa di prolissità ripetitive, su cui, per essere convincenti fino in fondo, bisognerebbe ad un certo punto saper calare il sipario, con un gesto sommesso, apparentemente qualunque.
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C'era una volta in Anatolia di Nuri Bilge Ceylan, Turchia 2011, durata 150 minuti
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