Indonesia, Londra, New York. Una giornalista, un bambino e un sensitivo che il destino pone in contatto con ciò che viene dopo la fine della vita. Hereafter affronta la sfida di un tema rischioso come l'aldilà e la vince, confermando all'anziano regista un posto nell'olimpo dei classici. Giù il cappello
di Marinella Doriguzzi Bozzo
“...ed egli sprofondò nel buco. Là, in fondo al buco, s’illuminò qualcosa. Cercò la sua solita paura della morte, ma non la trovò. Dov’era? Quale morte?...” Finisce così La morte di Ivan Il’ic, il più perfetto racconto di Lev Tolstoj. Perfetto come la moneta rotonda di un apologo.
Inizia qui l’ultimo film di Clint Eastwood, geometria diversa, forse imperfetta, ma con la stessa grande semplicità classica nel descrivere quel che non si può dire.
Perché proprio di quell’attimo si racconta: di quel tunnel, di quella strozzatura senza respiro, di quella cesura che noi vivi, animali senza alternative ai polmoni, temiamo più di ogni interrogativo. Senza consolazioni, senza prese di posizione, senza proposte. Senza. Solo inscenando nitidamente, attraverso tre percorsi convergenti, le tre facce della medesima prova. Nonché dando una grande lezione di narrativa, prima ancora che di cinema, alla imperante moda degli intrecci incrociati, capostipiti i film di Inarritu (21 grammi, Babel) o quello di Gaghan (Syriana).
La scena si apre sullo tsunami indonesiano del dicembre 2004, e decide lo stile del film: con il mare che come addestrato si alza sotto la nave e con la nave che si spiaccica in verticale contro il cielo. Come nei disegni senza tempo dei bambini, in cui non c'è spazio se non per l'essenziale e dove la frontalità è sempre una drammatica presa in diretta. Ci si perde, travolta dall'acqua, una bella giornalista televisiva in vacanza, che sperimenta di persona quel passaggio, con pochi flash di ombre e di luci e l'abbandono poetico del braccialettino che tiene in mano, per poi riaversi all'ultimo istante e riprendere a Parigi una vita che non sarà più la stessa.
A Londra, qualche mese prima dell'attentato del 2005 alla metropolitana, il gemello più anziano di una commovente coppia di undicenni viene travolto in un incidente stradale, lasciando il secondo a subire la stessa prova per interposta persona. Nel contempo, a New York, un sensitivo vero, che riesce a condividere quel momento con i vari postulanti che hanno perso i loro cari, rinuncia alla sua attività e va a fare il magazziniere. E l'accenno alla trama si ferma qui, per non guastare la sottile ma mai allentata suspense di cui tutto il film è intriso; senza effetti speciali, senza didattismi superflui, senza nemmeno quel minimo di aulicità retorica che l'argomento potrebbe quasi naturalmente indurre. Ma con la qualità rarissima di riuscire a trattare il trauma, il lutto, l'assenza dai vivi, la problematicità di un eventuale altrove come elementi del quotidiano; tra un corso di cucina, una fiera del libro, e un berrettino da baseball in bilico fra il l'umiltà di un marciapiede e il soprannaturale.
A 81 anni, l'uomo che cominciò la sua carriera come attore a basso prezzo ritorna al massimo della sintesi significante, quasi a dar ragione al regista Leone che lo definì un tipo con due sole espressioni: con il cappello e senza il cappello. Profeticamente. Perché il cappello ce lo leviamo noi, in ammirato omaggio, e perché è dall'arte del ridurre, del concentrare senza artificiosità, che il film trae la sua forza. Riuscendo a governare con assoluta naturalezza una trama complessa e un tema che è una sfida. Inserendovi armoniosamente paesi distanti, attualità mediatiche, accenni didascalici e prese di posizione sociali a contorno di vite qualsiasi o quasi tali, vissute da personaggi indimenticabili. In particolare, i due gemelli (che si inseriscono di diritto nella storia del cinema), dei quali non si sfrutta l'infanzia, bensì l'adulta precocità, secondo un accumulo di piccole invenzioni perfette che li caratterizzeranno per sempre.
La macchina da presa è tenuta ferma, le inquadrature sono quasi continuativamente dritte, accosto ai personaggi, così bravi da non sembrare attori; talvolta si allontana abbassandosi o rialzandosi appena per ridare contorni esterni ai momenti privati. Le luci sono calme, naturali, con piccoli flash come brevi shock. La fotografia è sapientissima, sfiorando talvolta affettuosamente i filmini domestici, al netto del loro ingenuo dilettantismo. La colonna sonora è quasi sdoppiata tra la musica vera e propria e gli spezzoni di lettura dei libri di Dickens, autore che si snoda lungo tutto il film come un nastro legante per culminare sull'ultimo libro lasciato incompiuto, Il mistero di Edwin Drood.
Se ne esce quasi consolati, malgrado l'ultimissimo minuto stonato da favola buona. E con il diritto di scelta autonoma: meditare, interrogandosi più sulla vita che sulla morte, intesa o no come mera cessazione; oppure essere semplicemente grati per due ore di originale, rara qualità. Difficili da recensire perché gratificanti da vedere, senza nulla aggiungere.
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Hereafter, di Clint Eastwood, USA 2010, 129 m
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