Riceve molte visite, ultimamente, la Rocinha, grande comunidade alla periferia di Rio de Janeiro: oltre alle sempre più insistenti incursioni di una polizia pacificadora che dovrebbe far piazza pulita dei narcotrafficanti, ci sono gli appositi Favelatour, per i curiosi che vogliono vedere la realtà delle bidonville senza leggere i giornali
di Igor Vazzaz
foto di Dania Ceragioli
L’appuntamento è a Copacabana, presso l’hotel più in della città. Frotte di fanciulle in orgasmo attendono che una qualche popstar faccia capolino. Giornata grigia, bagnata, è l’estate tropicale, trionfo appiccicoso di lentezza. Un furgone ci attende: sorpresa, il nostro Virgilio è Luigi, friulano trapiantato a Rio de Janeiro, benché la visita, come previsto, sarà in castigliano. Si parte dalla Zona Sul della cidade maravilhosa, raccogliendo lungo il cammino altri turisti che hanno prenotato. Sotto le gomme del Ford, lingue d’asfalto di lungomari da canzoni: Ipanema, Leblon, Gàvea, estremo avamposto d’opulenza prima dell’altrove che ci attende. Microfono in pugno, Luigi elenca raccomandazioni che ancora costeggiamo i parchi e la foresta dalla Lagoa, salendo verso una delle zone più chic della città. Ricchezza e miseria convivono, si sfiorano: combinazioni di colori, odori e volti, inconcepibili per noi gringos, stranieri, specie se europei. Non contraddizione, compresenza: come sostanze che, in un liquido, non si fondono.
Rocinha è la più grande comunidade, lemma preferito a favela, delle oltre novecento sparse per Rio: ottantamila presenze per un groppo di viuzze scure ad avvolgere il tortuoso corso principale. Impressionante che il celebre bairro sorga appena una curva dopo l’istituto scolastico americano, limite della zona bene ai piedi delle vette aguzze dei Dos Irmäos che dominano la vista: poggiato sul declivio, digrada in una conca di costruzioni addossate, termitaio abbacinante e scosceso. Primo comandamento: niente foto senza permesso.
Scendiamo nel bairro e il colpo d’occhio non è quello immaginato: strade affollate, negozi coloratissimi, banchi con frango e farofa (spiedini di pollo in farina di manioca), sorrisi. Non siamo una novità: questi tour sono una vera moda e a quella del pioniere Marcelo Armstrong si sono affiancate altre compagnie. Banchetti d’artigianato, t-shirt, quadri: la gente s’ingegna. Prosegue il giro: negozi, banche, un fast-food. Vuoi vedere che a Rocinha non si sta così male? Qui la tranquillità è assoluta, ci dicono. I narcos hanno interesse a tener calmo l’ambiente e amministrano la giustizia, con un certo piglio: non si scippa, non si rapina, non si batte. Non vivono qui ladri o puttane? Certo, ma, semplicemente, esercitano altrove, pena l’espulsione o altri mezzi dissuasivi piuttosto energici.
A Rocinha i maltrattamenti sulle donne, piaga diffusa a queste latitudini, sono assai meno della media, grazie all’ordine imposto da ADA. Anche il governo Lula è, in effetti, intervenuto sulle condizioni qui, regolarizzando allacciature, contrastando l’abusivismo, riuscendo in molti casi a far pagare le tasse, pur calibrate al ribasso. Allargare l’accesso al credito è stato un altro provvedimento significativo: scorgiamo schermi piatti, acquistati per i passati mondiali di calcio. Pagata la prima rata, s’attende l’eventuale confisca. Il dubbio: l’interesse è migliorare le condizioni o creare nuove fasce di consumo? Alcune comunidades sono state 'pacificate': creato un corpo di polizia all’uopo, imposta una tregua, stabilita una pace, forse duratura. Ma un qualsiasi foglio locale riporta ogni giorno un bollettino di guerra e il narcotraffico non si lascia certo scoraggiare da nuove divise: semplicemente, un corpo nuovo da corrompere e con cui accordarsi.
Scrutiamo, registriamo, cerchiamo di riflettere. Restiamo interdetti: partiti per analizzare un nuovo fenomeno turistico, i safari suburbani, spettacolarizzazioni ignobili del dolore, sfruttamento dello sfruttamento, avevamo già in mente il pezzo tromboneggiante. Ci troviamo davanti, invece, i solchi di questo volto italiano che ci pianta gli occhi negli occhi, parlando come se ci conoscessimo da sempre. Non si può scrivere di una favela e non siamo qui per questo. La si può tratteggiare, preventivando la castroneria, perché un intrico di mondo, esistenze e interessi simili è talmente arduo da penetrare, capire, com-prendere, che narrarlo sarebbe inusitata presunzione. Passeggiamo, beviamo una cerveja ghiacciata, annusiamo oltre il profumo denso della carne macellata sui banchi del negozio a lato.
Ci conducono in basso, verso il mare: altra favela, Vila Canoas, minuta rispetto all’immane Rocinha. Respiriamo Italia, perché questo bairro modello è stato ristrutturato da Franco Urani, presidente di Fiat Brasil negli anni Settanta. Abitando vicino, il manager decise d’aiutare questa gente contribuendo alla costruzione di fognature e quant’altro. Clima rilassato, foto consentite. La scuola locale riceve parte del ricavato dei tour, impresa che non sarebbe nata senza previo accordi tra Armstrong, l’amministrazione cittadina e ADA. Idea bizzarra, che storcerà qualche naso: (anche) questo è Brasile, un paese che “non è per principianti”, parole di Tom Jobim.
Più che interrogarci sul Favela Tour, dovremmo riuscire a riflettere sulla domanda cui risponde una simile iniziativa. Più che saggiarne l’autenticità, l’onestà o l’eventuale doppiezza, dovremmo riuscire a capire davvero “cosa siamo” noi. Da un lato, queste visite sgomberano il campo, per quanto possibile, da mediazioni giornalistiche e banalizzazioni facili. Il risultato è in parte centrato: il 20% della popolazione di Rio, un milione e più di persone, abita in favelas e no, non sono tutti delinquenti, ma camerieri, autisti, venditori ambulanti, donne delle pulizie che vediamo nel resto della città. Ci sono anche i ladri, gli spacciatori, le prostitute bambine, ma qui, non senza ipocrisia, non si vedono: per queste porzioni d’umanità, si vada altrove, ma lo spettacolo, per così dire, potrebbe essere meno rassicurante.
È comunque la categoria del turismo a necessitare d'una riflessione seria, profonda: il bisogno pneumatico che abbiamo di rendere ogni cosa fruizione, carne da spettacolo, feticcio da smercio. L’impressione è che il turista sia, per definizione, il soggetto meno portato a capire una realtà esterna dalla propria. È il nostro stesso sguardo a inficiare tutto: perché, dato un obiettivo fotografico, è automatica la messa in posa, la falsificazione, parziale o totale che sia, implicita alla nostra edonistica curiosità. Per questo è, non difficile, ma impossibile, parlare compiutamente non tanto di favelas, benché sarebbe necessario, ma persino di questi tour. Possiamo parlare di Luigi, della sua dignità nel non svendere ciò che vediamo, dei sorrisi che ricambiamo, dei muri scrostati, della gente in strada, ma non della realtà: viene meno il criterio principale, quello che già Chico Buarque, sulle cui note culliamo il ritorno, metteva in crisi, quando cantava di ciò "que não tem juízo".
Tags: Brasile, emarginazioni, Favelas, Igor Vazzaz, povertà, Rochilda, tour,
Favelatour a Rocinha, Rio de Janeiro, Brasile
Informazioni: Il prezzo per una visita di circa tre ore (una al mattino, una al pomeriggio) è di 90 R$ (circa 39 €). È necessario prenotare.
Contatti: ai numeri 3322-2727/ 9989-0074/ 9772-1133 oppure al sito www.favelatour.com.br, che, non è un caso, è in inglese, francese, spagnolo, ma non in portoghese.
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