Antonio Latella mette in scena Le Nuvole di Aristofane in modo sorprendentemente fedele allo spirito originario della commedia: dialoghi brillanti, citazioni oscene e scheletri sul palco, a ricordarci la nostra caducità
di Sergio Buttiglieri
E' divertente assistere alla messa in scena di Antonio Latella de Le Nuvole di Aristofane prodotto dal Teatro Stabile dell'Umbria (e vedere qualcuno del pubblico che si alza e se ne va - almeno questo l'ho potuto vedere al Metastasio di Prato dov'era in scena pochi giorni fa - convinto che il regista sia stato irrispettoso verso il testo e oltraggioso verso il pubblico).
Eppure qui Latella, regista che in passato aveva lavorato con ottimi risultati su autori viscerali come Pasolini, Testori, Shakespeare, e Melville, è stato particolarmente fedele ad Aristofane. I suoi dialoghi sono sorprendentemente attuali e per niente ingessati. Tutti pensano che quando si vuole mettere in scena i classici della Grecia antica si debba obbligatoriamente avere una recitazione impostata, piena di lemmi desueti anche in presenza della Commedia. Niente di più sbagliato. Queste Nuvole vanno lette d'un fiato prima dello spettacolo, per gustarsi appieno quanto la vicenda del padre pieno di debiti con un figlio sfaccendato, che spera di poter far rinsavire per dargli una mano a risolvere i suoi guai, mandandolo a scuola dai sofisti, per poi pentirsene amaramente, sia un apologo di grande tragicomica attualità.
C'è in questa irriverente rappresentazione una profonda disincantata analisi della nostra percezione della realtà. Esattamente come oltre 400 anni prima di Cristo, anche oggi abbiamo sempre l'illusione di sapere vedere veramente la realtà che ci circonda e di poterla modificare in meglio attraverso i professionisti della parola. Basta leggere i titoli dei media addomesticati di questi giorni per rendersene conto.
Il teatrino della politica, come quello della finanza virtuale, va a nozze con il micro teatrino iconico con tanto di velluti rossi, parodia della "rivista" da cui in qualche modo deriva lei stessa, al centro del palcoscenico da dove un'archetipo di Socrate, cantilenando follow me, follow me, armato di palloncini gialli segnalatori, a metà fra una ragazza pon-pon e un addetto allo smistamento aereo, ci introduce negli irresisitibili meandri dela retorica.
Sembra un gesto gratuito il pupazzo nudo con tanto di rubicondo pisello in vista che fin dall'inizio si trascina Fidippide, il figliolo debosciato, come fosse il suo alterego, mentre non è altro che una citazione delle appendici oscene che indossavano mentre recitavano gl'istrionici buffoni girovaghi dell'antica Grecia precursori dei nostri Pulcinella e Arlecchino. Non a caso Latella fa indossare spropositate scarpe da clown ai suoi attori, o fa calzare una maschera da Commedia dell'Arte a Socrate dilatandone però la bocca come nelle tragedie classiche.
Come non sono arbitrari i coretti che interrompono la commedia: perfette rivisitazioni delle paràbasi che immancabilmente interrompevano le commedie di Aristofane per permettere all'autore attraverso il coro che si rivolge direttamente al pubblico, di fare l'apologia del suo lavoro, e dare il là all'epilogo finale.
Le nuvole siamo noi spettatori, mutevoli e diversi ogni sera, testimoni delle nostre sempre uguali ossessioni, condite di corporalità e di imbarazzante cecità. Sono 3000 anni che ricadiamo sempre negli stessi problemi esistenziali: qualcuno ce li racconta facendoci piangere, altri facendoci sorridere e scandalizzare. Ma la minestra è sempre quella.
Quasi a ricordarci la caducità dei nostri goffi dilemmi Latella sommerge il teatro, con grande potenza scenica, di un'infinità di scheletri danzanti, scheletri in conversazione, scheletri appisolati o in meditazione, scheletri atteggiati come fossero una scarnificata deposizione del Masaccio, che tutti insieme ci ricordano nel loro vorticare muto un Giudizio Universale alla Signorelli (quello orvietano) oppure un desolante paesaggio onirico alla Bosch.
E mentre noi non facciamo in tempo a domandarci, come Fidippide, come si fa a pensare, le canzoni di Mina (Se stasera sono qui), il pensiero debole e quello forte, i balletti anni '30, Trotta Trotta Cavallino, assieme ai discorsi mussoliniani, che a loro volta si confondono con i pensieri di Moccia e Baricco, ci travolgono congiuntamente agl'improperi impronunciabili rivolti al pubblico (anch'essi di solida derivazione attica). Il vecchio Strepsiade deve subire il contrappasso del figlio velocemente erudito dai sofisti (sperando con ciò di cavarsela coi creditori delle sue troppo stupide scommesse sui cavalli) che lo mena ricordandogli come sia giusto picchiare i vecchi perchè loro hanno meno ragioni di sbagliare rispetto ai giovani.
Dopo questa cinica morale Strepsiade, come spesso succede all'uomo nel corso dei secoli, pensa naturalmente che sia giusto a questo punto incendiare il pericoloso Pensatoio, fonte e capro espiatorio di tutti i guai dell'umanità.
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LE NUVOLE DI ARISTOFANE, REGIA DI ANTONIO LATELLA
La Compagnia: Marco Cocciola, Annibale Pavone, Maurizio Rippa, Massimiliano Speziani. Applausi scroscianti per tutti
Prossimamente in scena: Parma, TeatroDue, 3 e 4 marzo; Casalecchio (Bo), Teatro A.Testoni, 5 e 6 marzo; Modena, Teatro Storchi, 8 e 9 marzo; Brescia, Teatro Sociale, dal 10 al 14 marzo; Casalmaggiore, 16 marzo; Como, Teatro Sociale, 19 e 20 marzo; Padova, Teatro G.Verdi, dal 23 al 28 marzo; Porto San Giorgio, 30 marzo; Brindisi, Teatro G.Verdi, 13 e 14 aprile
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