Lo scorbutico e cinico filosofo ci conduce in un grottesco viaggio alla volta dell'America, ultima speranza di un occidente che muore. E' una fantasia di Thomas Bernhard, portata oggi in scena da Alessandro Gassman
di Sergio Buttiglieri
Foto di Gianmarco Chieregato
Thomas Bernhard per tutta la vita è stato - sua definizione - un "disturbatore della pubblica quiete". Questo recensore del caos oltre a raccontare sempre se stesso con i suoi scritti è riuscito a svelarci l'infelicità intrinseca all’esistenza stessa. E anche questo suo vecchio e intrattabile Immanuel Kant (magnificamente interpretato da un lucido Manrico Gammarota), non fa eccezione.
Malato di glaucoma durante un improbabile viaggio della speranza verso l’America, Kant è il ritratto metaforico della cecità irreversibile della cultura occidentale che cinicamente si rivolge al Nuovo Mondo per dare una nuova verità all’esistenza. Sempre che non si affondi prima come col Titanic, come ci racconta la sopravvissuta strepitosa milionaria trash - interpretata da Mauro Marino - che per tutto il viaggio non si stanca di chiamare il protagonista Kent come l’eroe di un soap opera americana, oppure Gant come una marca di vestiti.
Il regista Alessandro Gassman imbarca tutti noi spettatori in questa traversata oceanica dal sapore chapliniano, munendoci di pillole per il mal di mare che gli attori distribuiscono in platea durante il prologo. Ma ad accompagnare il protagonista sulla nave Pretoria c’è soprattutto l'inseparabile Federico, il pappagallo che tutto sa e tutto ripete, imbottito di sonnifero per non irritarsi troppo nel vedere questo caravanserraglio.
“Quanto di più importante è stato pensato, è stato pensato nella sua testa” ricorda Kant al suo fidato e semi-idiota servitore Ernst Ludvig, sempre accanto al pappagallo, senza mai assorbirne la sua sapienza se non alla fine, quando, rialzandosi e guardandoci direttamente negli occhi, ci farà scoprire che la gabbia è irrimediabilmente vuota, come l’anima del suo padrone.
Il trio col pappagallo sta sempre celato ai nostri occhi, dentro una sorta di gabbia-teatrino privato, alle prese con una umanità disprezzata per la sua inconsapevole vacuità, che abita questo microcosmo in transito come se ci vivesse da sempre. Un'immagine che riesce a restituirci tutta la potenza del linguaggio dello scrittore olandese naturalizzato in Austria. Incessantemente odiato dai suoi convenzionali concittadini da lui definiti corrotti , ipocriti, nostalgici del nazifascismo, razzisti e antisemiti, per tutta la sua vita non smise di perturbare i lettori con i suoi scritti, senza speranza e senza punti a capo.
La stessa percezione di soffocamento la si ritrova nella vena grottesca e inquietante della pièce, quasi marionettistica quando le sublimi caricature dei prelati scorazzano beoti in coperta, senza mai saper rispondere alle semplici domande di Kant, ma sempre pronti a ritirare in America la nuova Cattedra di Equilibristica. Sullo sfondo l’ammiraglio imperterrito continua a vomitare fuori bordo ripetendo a tutti che sulla nave, come nella vita, è tutto assolutamente sotto controllo.
Il protagonista è, come spesso avviene negli scritti di Bernhard, un misogino dai risvolti beckettiani: “Senza la mia vista anche la mia mente naufraga”. “Per un intellettuale la cecità è una paura spaventosa”. La sua cateratta è al contempo una malattia e una invalicabile tenebra. Qui come altrove la natura opera per scarti impercettibili: “Da 25 anni ti paghiamo per la tua indolenza, per la tua ottusità”, urla Kant al suo servitore, e tirando per la cravatta l’indolente capitano della nave, cinicamente gli sussurra: “Le disgrazie degli altri sono la tua fortuna”.
Il nostro scorbutico Kant, che soffoca di monotonia, con i suoi discorsi impertinenti lacera, scompone, corregge, capovolge le convenzioni (“l’oppio è ormai la religione dei popoli”). Questo Kant nichilista, privo d’amore per gli altri, ne è privo proprio perché per Bernhard l’amore è un’assurdità che in natura non c’è. Un personaggio irrequieto che pensa che il silenzio stesso sia malato. Anzi che tutto sia malato, e niente si salvi. Anche l’amore per la propria vita è sempre controbilanciato dall’odio: "…Siamo attorniati da incapaci, incapaci che ci odiano… Eliminare il mondo intero è l’unico modo per migliorarlo. Odio questa casa, odio questa zona, l’ho sempre odiata, non la sopporto più, via di qui… Una città orribile, piena di gente cretina… Ho sempre odiato questa gente", fa dire a un altro implacabile personaggio nel suo celeberrimo monologo Il Riformatore del Mondo.
La vita per Bernhard è un esercizio preparatorio per la morte. La gente, come ci ricorda il protagonista di un altro suo famoso implacabile racconto, Gelo, abita dentro a dei cimiteri. Le grandi città non sono altro che dei grandi cimiteri, i villaggi dei cimiteri più piccoli, i nostri letti delle bare e i nostri vestiti delle vesti funebri. Per lui la sua opera non è altro che un lungo soliloquio che ha lo scopo di esorcizzare la morte. E questo ipertrofico transatlantico ne è una sorta di cimitero monumentale.
Insomma, un implacabile Kant quello che abbiamo visto al Teatro Duse di Genova, che ci fa riassaporare un Thomas Bernhard insuperabilmente cinico. Un cinismo, scomodo e destabilizzante, che smonta e decostruisce l’impalcatura delle nostre mediocrità con cui puntelliamo l’esistenza eternamente in balia degli infidi oceani, come questo transatlantico dal sapore felliniano.
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Immanuel Kant, di Thomas Bernhard, regia di Alessandro Gassman
Musiche originali: Pivio e Aldo De Scalzi
Il resto della locandina: scene di Gianluca Amodio, light design di Marco Palmieri, costumi di Gianluca Falaschi, suono di Massimiliano Tettoni
Produzione: Teatro stabile del Veneto Carlo Goldoni, Teatro stabile delle Marche, Napoli teatro festival Italia
Repliche: a Padova (Teatro Verdi) dal 2 al 7 novembre, a Mirano il 19 novembre, a Cattolica il 20, a Castelfranco Veneto il 23, a Udine il 24, a Lendinara il 28, a Crotone il 30 novembre e 1 dicembre
Altre date: la pagina di Teatramanti
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