Il tempo di vita delle persone spalmato a piacere dalle imprese sulle catene di montaggio: quale idea di società e di uomo sta dietro l'accordo di Marchionne? E' da qui che deve iniziare il dibattito, che non riguarda solo gli operai, ma tutti noi
di Marco Revelli
(Eccezionalmente Giudizio Universale apre con un articolo prestato da Il Manifesto: perché l'editoriale del noto storico ci sembra la più lucida analisi finora pubblicata sull'argomento)
In città si stanno moltiplicando i negozi con la vistosa insegna gialla «Compro oro». Erano pressoché sconosciuti fino a un paio di anni fa, ora crescono come funghi: appena un paio in centro, gli altri - decine - nelle ex barriere operaie, Borgo San Paolo, Barriera di Milano, Mirafiori sud... Acquistano tutto, anche le protesi dentarie. D'altra parte Torino ha fatto segnare nel 2010 il non invidiabile primato nella crescita dei pignoramenti di alloggi, con un +54,8% nei primi dieci mesi dell'anno rispetto al già duro 2009. E si calcola - sono dati impressionanti - che un 35-40% dei lavoratori metalmeccanici torinesi abbia fatto ricorso, nell'ultimo biennio, alla cessione del quinto dello stipendio, per pagare le rate in sospeso, o semplicemente per arrivare alla fine del mese.
È su questa Torino, su questo tessuto sociale allo stremo, che ha calato la scure del suo Diktat Sergio Marchionne, dall'alto del suo ponte di comando globale e dei suoi quattro milioni e mezzo di euro di stipendio annuo, quattrocentotrentacinque piani più sopra rispetto al reddito annuo di ognuno di quegli uomini e quelle donne che a Mirafiori - nel luogo in cui sono inchiodati per la vita o per la morte - dovranno domani votare se «arrendersi o perire». Più di novemila volte più in alto - una distanza stellare - se si considera anche il valore delle stock options accumulate, valutabili con un calcolo minimale intorno ai 100 milioni... Come faccia uno come Eugenio Scalfari a scrivere che non si tratta di ricatto ma di semplice «alternativa» è difficile da capire. Ma ancor più difficile da capire - loro non vivono come lui in un mondo rarefatto di letture e poteri - è come facciano a negarlo i sindacalisti che quell'accordo hanno siglato. E che non possono ignorare l'asimmetria abissale, il divario incolmabile che separa e distanzia le due parti contraenti segnando, appunto, la differenza tra un ricatto (a cui il destinatario non può sottrarsi senza rinunciare a una parte essenziale di sé), e un'alternativa, in cui in qualche modo la scelta è libera.
Ora è proprio in questo divario, in questa asimmetria assoluta che nella chiacchiera superficiale, politica e giornalistica, viene solitamente invocata per sostenere la necessità di accettare l'Accordo, la natura scandalosa dell'evento. Il fattore che rende quell'accettazione inaccettabile. E che sottrae la vicenda Fiat alla dimensione specifica di una «normale» vertenza sindacale per farne una questione etica e politica di rilevanza generale: un evento di natura «costituente». Perché quando in una società si crea un dislivello simile, quando le distanze tra parti sociali essenziali crescono a tal punto da costringerne una al silenzio e all'umiliazione, vengono meno le condizioni stesse di una normale vita democratica. Quando il principio di Uguaglianza viene a tal punto trasgredito, anche termini come Libertà e Giustizia perdono di significato, per assumere il volto tetro dell'arbitrio del più forte e dell'uso vessatorio delle regole.
Basta, d'altra parte, leggere le 78 cartelle in A4 della bozza di Accordo, diligentemente siglate pagina per pagina dalle parti contraenti, per rendersi conto della sproporzione tra le forze.
Ognuna di esse trasuda, letteralmente, «asimmetria». A cominciare dalla «Clausola di responsabilità» che fa da preambolo, senza neppure uno straccio di accenno agli impegni assunti dall'Azienda per la realizzazione del «piano per il rilancio produttivo dello stabilimento di Mirafiori Plant», e invece minuziosamente precisa (direi minacciosa) nel sottolineare gli obblighi degli altri, con quelle due righe sul «carattere integrato dell'Accordo» per cui la trasgressione (collettiva o anche individuale) di uno solo degli impegni assunti costituirebbe un'infrazione grave, tale da fare decadere tutti i diritti acquisiti dalle organizzazioni sindacali contraenti... Per non parlare della procedura scelta dalla Fiat Group Automobiles per sfilarsi dall'accordo del '93 e dai vincoli del contratto nazionale dei metalmeccanici - per «far fuori» la Fiom! - con l'espediente della newco, in clamorosa violazione del dettato del nostro codice civile (art. 2112) in materia di «Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d'azienda» ... Come se, appunto, l'onnipotenza aziendale potesse prevalere su ogni normativa pubblica, nella stessa misura in cui le regole stipulate a livello d'impresa devono servire a null'altro che a sancire la volontà di potenza del vincitore.
Oppure si consideri il primo punto della «Regolamentazione per la Joint Venture», sull'Orario di lavoro. Dice che la proprietà potrà scegliere tra un ampio ventaglio di opzioni - «schemi» li chiamano - con una sorta di menu à la carte nel quale vengono ricombinate le vite dei lavoratori: 15 turni (8 ore su tre turni, mattino, pomeriggio e notte, per cinque giorni la settimana); oppure 18 turni (8 ore su tre turni per sei giorni la settimana, quindi compreso il sabato); oppure, ancora, in via sperimentale, 12 turni (ognuno di 10 ore giornaliere, due turni al giorno per sei giorni la settimana). Nei casi in cui l'orario settimanale superi le 40 ore, è previsto un recupero giornaliero la settimana successiva, ma esso è puramente teorico dal momento che l'Accordo prevede anche 120 ore di straordinario obbligatorio (aumentabili fino a 200), a disposizione dell'azienda che le potrà utilizzare per saturare in periodi di picco nella produzione anche i periodi di riposo infrasettimanale. Le pause, a loro volta, saranno ridotte da 40 a 30 minuti, tre per turno, in ognuna delle quali il lavoratore dovrà scegliere se andare in bagno, sedersi un attimo per prendere fiato o tentare di addentare uno snack (dal momento che la pausa mensa potrà essere spostata a fine turno e lavorare otto ore in piedi senza soste e senza mettere nulla in corpo non è sopportabile). In compenso la riduzione delle pause sarà compensata con un controvalore di 32 euro al mese, circa un euro al giorno (più o meno quanto si dà a un lavavetri al semaforo).
Dentro questa griglia ci sono le vite di alcune migliaia di uomini e di donne. Ci sono centinaia e centinaia di famiglie, con la loro organizzazione spaziale e temporale, con la loro rete di relazioni, con le loro concrete esistenze. Ci sono, appunto, delle «persone»: c'è il loro «tempo di vita», divenuto una sostanza spalmabile a piacere dall'impresa sulle proprie catene di montaggio, tra i pori del proprio «tempo di saturazione» (quello che divide l'ora in 100.000 unità di tempo micronizzato, secondo i dettami della nuova «metrica del lavoro»), a seconda di ciò che comanderà, momento per momento, il mercato. E dobbiamo chiederci, a questo punto, quale concezione del mondo stia dietro a questa visione. Quale idea di uomo (di «persona umana») e di società ispiri un tale progetto. E se l'argomento «definitivo» - quello con cui si taglia ogni discorso, si mette a tacere ogni obiezione - della «globalizzazione» e dei suoi impersonali dogmi sia sufficiente a giustificare una tale macelleria sociale ed esistenziale.
Ecco perché la «sfida» lanciata da Marchionne non è una «questione privata». Non può cioè essere limitata al rapporto tra la Fiat e il «suoi» operai (e non dovrebbe essere affidata solo al voto «con la pistola puntata alla tempia», di quegli operai che non devono essere abbandonati a se stessi), ma riguarda tutti noi, in quanto cittadini. Riguarda l'orizzonte in cui ci troveremo a vivere nei prossimi anni. Non è uno strappo contingente alle regole. È uno tzunami, che scardina le basi stesse del sistema di relazioni industriali e, più in generale, del nostro ordine sociale e produttivo. L'hanno sottolineato i più autorevoli osservatori non vincolati da obblighi di carattere servile, da Carlo Galli (in un lucidissimo articolo su Repubblica) a Ulrich Beck, uno che di «società globale» se ne intende. Farebbero bene ad accorgersene anche i nostri «re tentenna» del partito democratico (quanto filisteismo c'è nel Fassino che dice «se fossi un operaio voterei sì»), e quanti pretendono di esercitare funzioni di rappresentanza.
Se dovessimo accreditare l'idea della globalizzazione che da quel «fatto compiuto» si manifesta - se dovessimo davvero attribuire a quel sistema impersonale di vincoli carattere d'inderogabilità e alle sue ricadute sui territori natura di nuova «costituzione materiale» - allora dovremmo rivedere tutti i nostri concetti portanti: di cittadinanza, di democrazia, di legittimazione e di diritto. Così come se dovessimo ritenere inaggirabile quell'ukase - se ai lavoratori non dovesse più rimanere altra alternativa che quella tra la perdita del posto o l'accettazione di una condizione esplicitamente servile del proprio lavoro, se il lavoro conservato dovesse rivelarsi irrimediabilmente incompatibile con diritti e dignità -, allora non ci resterebbe davvero che organizzare un esodo di massa, fuori dalle mura dentate delle fabbriche, lontano dallo stato di «salariato». Oltre, davvero oltre, la modernità che abbiamo conosciuto e che non era fatta di asservimento e subalternità (come vorrebbero i nostri «modernizzatori» tardivi), ma di conflitto e di diritti faticosamente contesi.
(da Il manifesto, 12/1/2011)
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L'ACCORDO FIAT
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Quanti di quelli che scrivono
Quanti di quelli che scrivono e riflettono sull'argomento hanno mai lavorato in una fabbrica? Quanti conoscono il vero ruolo dei sindacati nel metalmeccanico? Sono di sinistra, vengo da una famiglia di comunisti e quando sono entrata in una azienda del gruppo Fiat è stata per me una enorme delusione vedere che i sindacalisti, che da bambina immaginavo come eroi dei lavoratori, si sono ormai convertiti in un sistema la cui attività è del tutto simile ad un sistema mafioso. Mi spiego: i rappresentanti sindacali degli operai (ne esistono anche per gli impiegati ma qui mi riferisco a quelli degli operai) hanno l'obiettivo di ottenere più tesserati possibile per avere maggiore peso nelle contrattazioni in fabbrica e per avere più rappresentanti sindacali in fabbrica. Il rappr. sindacale ha un tot di ore a disposizione, sulle 40 settimanali, che sulla carta dovrebbero servire per fare "attività sindacali" (assistenza fiscale, parlare con gli operai dei loro problemi, ecc. ecc.). Nella realtà il rappr. sindacale ambisce a diventare tale perchè nelle ore in cui è in permesso sindacale non gli può essere richiesto di lavorare. Quindi, oltre a svolgere le succitate "attività sindacali", in queste ore passeggia per la fabbrica, prende caffè, chiacchiera con i colleghi (che invece sì che stanno lavorando). Ma fin qui può ancora andar bene. Quello che mi ha veramente colpita è che se un lavoratore X chiede aiuto ad un sindacalista per una questione, l'aiuto arriva solo se X si tessera per quella tal sigla sindacale (più tessere più rappresentanti, più potere). Altrimenti X può anche essere vessato, mobbizzato, ecc. ma al sindacalsita non gliene fregherà un beato nulla. A casa mia questa logica si è sempre chiamata ricatto. Io ti dò un servizio se e solo se tu ne fai un altro a me. Di più, l'azienda, per mantenre una certa "pace sociale" concede aumenti e livelli quasi solo ai "protetti" (e tesserati) del sindacato, ed ecco un altro ricatto, se X si tessera può sperare in un futuro di avere un aumento, altrimenti rimane un figlio di nessuno e sarà molto più difficile che abbia riconoscimenti del suo lavoro. Quello che poi lascia davvero delusi è che i sindacalisti sono i primi che in azienda non usano i mezzi di sicurezza, questo perchè ciò gli consente di fare prima la produzione richiesta e di avere così più tempo a disposizione per fare attività sindacale. Quando c'è un reale problema di sicurezza (emissioni tossiche in un impianto di verniciatura ad es.), se non conviene fare lotte con il Capo del personale (ad es. perchè si stanno discutendo gli aumenti ) il sindacato tace, con buona pace di chi si intossica lavorando in verniciatura. Questa è una situazione tipica di tutte le sigle sindacali del metalmeccanico e di molte aziende metalmeccaniche, mica solo la Fiat. Ne ho viste tante di aziende per lavoro, da piccole a medie e grandi, da nord a sud, ed il ruolo è sempre lo stesso. Io credevo che il sindacato si battesse per i lavoratori a prescindere dal fatto che io mi tesseri o no. Pura illusione. Tutto questo per dire che le "conquiste" del mondo operaio ce le siamo già belle e che perse per la via, non sarò certo questo accordo che le farà venire meno.
vede,che si tratti di un mbo
vede,che si tratti di un mbo o di una stock option*,è ovvio che lo stipendio di Marchionne sia legato ai risultati.Ma ,date le circostanze,presumo sul medio periodo.E non sul banale fatturato dell'anno.E la situazione che Marchionne ha dovuto affrontare,viene da lontano.Senza entrare in tediosi dettagli,a partire dalla rinegoziazione dello sciagurato patto economico con GM,la Fiat non ci sarebbe più.Penso che questo, in termini di moneta,per gli azionisti,valga qualche cosa.E per gli investitori anche.E per i lavoratori pure.In più,lei m'insegna,le aziende si "muovono " a cicli.E molto spesso le premesse inseminate da un amministratore delegato vedono concretizzarsi gli esiti positivi sotto un'altra gestione.O viceversa:nel senso che errori commessi dai precedenti amministratori si riverberano sulla gestione di quelli che li seguono.E' questo il caso di Marchionne. L'argomento poi è puerile non certo in sè,ma in funzione dell'oggetto di cui si tratta,che è la salvezza o meno di Fiat.In Italia o altrove.Chè se anche Marchione,ispirato da S.Teresa,decidesse di lavorare gratis,i rischi che l'azienda sta correndo come competitor internazionale non cambierebbero
Se crede,poi possiamo dibattere l'argomento stipendi degli amministratori/risultati,che è molto interessante e che ha causato la spremitura come limoni di parecchie altre aziende.*Ma è un argomento tecnico che con Marchionne non c'entra nulla.E,sia ben chiaro,io leggo e m'informo come posso,non sono una sua parente
*Se si prendesse la briga di guardare le classifiche dei manager più pagati,ne scoprirebbe delle belle
"[...] possiamo dibattere
"[...] possiamo dibattere l'argomento stipendi degli amministratori/risultati,che è molto interessante e che ha causato la spremitura come limoni di parecchie altre aziende.*Ma è un argomento tecnico [...]" Allora non è una questione ideologica e di "massimi sistemi" ...
due premesse:voto a sinistra
due premesse:voto a sinistra e conosco il "mestiere" due domande :qual è l'industriale straniero che investirebbe oggi in questo paese?Contro chi si sciopererebbe se la Fiat decidesse di disinvestire e andare altrove? altre considerazioni: -sull'arte astratta della parola,che quando c'è una decisione urgente da prendere,sposta tutto sempre ai massimi sistemi,passando sempre dalla prassi alla teoria.Tutti vorrebbero che i bambini non morissero di fame,e che il mondo non fosse nelle mani dei banchieri,che hanno messo in ginocchio interi continenti,e non hanno pagato nessun fio.Ma qui siamo. -sullo sciagurato modo di gestire storicamente le relazioni industriali in Italia,basato,alternativamente,sullo strapotere o dei padroni o dei sindacati,e quindi sempre,e comunque di volta in volta,sul mors tua vita mea,che è la peggior premessa a qualsiasi negoziazione. -sul fatto che ora avevano ragione gli uni,ora gli altri;fatto ininfluente ,perchè contavano e sempre hanno contato non le ragioni,ma le forze di parte Ciò detto,non ho nessuna reverenziale soggezione /ammirazione nei confronti di Marchionne.Certo è che senza di lui la Fiat oggi non ci sarebbe più,per come era conciata. Altrettanto certo è che è tramontata l'era delle fabbriche di automobili padrone dei rispettivi mercati domestici.Si compete durissimamente su tutti i mercati,e molte aziende sono saltate.Per sempre.Altre non hanno guardato al sacrificio immediato ( vedasi operai e sindacati Ford) ma alle prospettive di medio lungo periodo. Ora,è evidente che l'accordo Fiat,comunque vada,comporterà due mali:quello contingente della perdita di alcune "conquiste" del mondo operaio,oppure quello definitivo in cui non ci saranno "arretramenti riassorbibili" in un futuro più solido,ma semplicemente la gente starà a casa disoccupata. Ed è altrettanto evidente che il sacrificio dei lavoratori non compenserà la mancanza di modelli.Così come è vero che la crisi mondiale si è scaricata sulle spalle dei più,e i finanzieri cialtroni (loro e il "sistema" di appartenenza)l'hanno fatta franca-E allora?Marchionne non è certo apparentabile a questi cialtroni. E a questo punto non è neanche interessante rinvangare il passato e le colpe della Fiat.O quelle attuali del Governo.Non serve.Qui siamo,accidenti.Piaccia o no. E l'argomento del salario di Marchionne mi sembra puerile,visto che di soldi glie ne daranno altrettanti ,se non di più,andando ad altra eventuale azienda.Ossia ,Marchionne ha un mercato,la Fiat e i suoi operai forse che sì,forse che no. Vogliamo ritornare ai massimi sistemi sull'ingiustizia del mondo?O all'ennesima denuncia dei mali del capitalismo? O pensare che, una volta salvi,si può ricominciare a discutere,non ideologicamente?Magari avendo anche il buon senso di riformare la mentalità altrettanto vecchia e padronale del sindacato,nonchè suggerendo en passant a operai e impiegati che non ci si mette collettivamente in mutua durante i mondiali di calcio?E quest'ultima è solo una battuta sull'etica del lavoro,che i nostri nonni,lavorando più duramente,avevano. Eh,un'ultima cosa:rispetto all'accordo Fiat,gentile Susanna,mi sembrererebbe prioritario lottare per la disoccupazione giovanile e non ,di fatto,contro chi un lavoro ce l'ha.Migliorabile,nelle sue regole,solo se l'azienda tutta riuscirà a tenere.
"L'argomento del salario di
"L'argomento del salario di Marchionne" non è puerile per almeno due ragioni, l'una conseguente all'altra: 1. quello di Marchionne non è un salario, è un compenso che si ipotizza correlato alle sue "prestazioni" di manager; 2. se gli operai della FIAT, diversamente da lui, non avranno un mercato, se l'Italia e la FIAT diverranno due entità del tutto distinte, è colpa, e non merito, di Marchionne: siamo sicuri che si meriti il compenso?
Saranno pure discorsi sui massimi sistemi, ma intraprendere la via più facile e decidere di spendere semplicemente meno, non sono qualità da 450 milioni annui.
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