L'arpa, elemento essenziale dell'educazione musicale delle fanciulle del XVII secolo, e l'armonica, strumento "di fortuna" impiegato da chi bazzicava il blues e il jazz a inizio Novecento. Attraverso le mani di Marcella Carboni e Max De Aloe tradizioni di epoche ed estrazioni diverse si incontrano sul canone della musica leggera
di Marco Buttafuoco
In tempi lontani, prima ancora dell’avvento della radio, in quasi tutte le case della buona borghesia esisteva un pianoforte e la musica era un complemento dell’educazione delle giovani dabbene. Forse non erano nemmeno tempi così brutti. Alla buona musica veniva dato un certo spazio, maggiore di quanto gliene concede oggi la televisione. Nei nostri salotti borghesi venivano suonate arie d’opera e belle romanze, crepuscolari e delicate; in quelli delle colta e francofila New Orleans, più o meno negli stessi tempi, alcuni pianisti suonavano un genere che sarebbe poi diventata più noto come rag time. Parlare di musica da salotto non era quindi parlare di ciarpame.
E’ ovvio che la stanza in cui questi suonano due bravi artisti, la suonatrice d’arpa Marcella Carboni e l’armonicista Max de Aloe, è del tutto particolare. L’arpa era uno strumento adattissimo alle signorine di fine ottocento, ma l’armonica cromatica è strumento popolare, di strada, voce del blues come delle nostre vecchie osterie (di comune hanno solo il nome inglese “harp”). E’ un ambiente molto post moderno quello in cui si muovono i due, dove “l’odore d’ombra e di passato” di gozzaniana memoria c’è ancora, ma è più profumo di tropici, il sogno di paesaggi lontani. Al posto delle cartoline della bella Otero vi si trovano ritratti di compositori brasiliani, la tenue “perplessità crepuscolare” ha colori accesi e si chiama con il nome portoghese di saudade, o trasforma nell’accorata malinconia di Astor Piazzolla. Al posto degli spartiti c’è la capacità improvvisativa nella pratica del jazz. Sia la Carboni sia il suo partner vengono infatti da collaborazioni ed eperienze musicali di pregio. L’arpista sarda ha collaborato ad esempio con Paolo Fresu, Massimo Barbiero, Gianluigi Trovesi, Giancarlo Schiaffini. L’armonicista di Busto Arsizio ha suonato, fra gli altri, con John Taylor, Kenny Wheeler, Umberto Petrin.
Ma, come dicevamo, la delicatezza, il lirismo sognatore, il sentimentalismo delle vecchie romanze rimane tutto intero e fragranti, in questo singolare disco intessuto di cover di brani altrui (Astor Piazzolla, Hermeto de Pascoal, Pixinguinha, Irving Berlin ma anche i Beatles) e di buoni originals. E’ proprio in questi, brani, soprattutto in quelli firmati dall’armonicista che si coglie carattere peculiare e appunto salottiero di questo disco. La musica di De Aloe è infatti intrisa di una cantabilità tutta italiana, appassionata, malinconica, raffinata. Paradossalmente a dare un’anima più jazzistica al progetto è invece l’arpa della Carboni, capace talora di uno swing leggero e pieno di souplesse. Harp pop regge un ascolto anche prolungato. E’ musica esile, ma ricca di passioni e sentimento, di virtuosismo e di una poesia minuta ma spesso toccante.
Tags: Abeat, armonica, arpa, harp pop, Marcella Carboni, Marco Buttafuoco, Max D'aloe, recensione,
Harp Pop di Marcella Carboni e Max De Aloe, Abeat 2013
Commenti
Invia nuovo commento