Ne Il limbo delle fantasticazioni narrativa e teoria si fondono in un vero testo di poetica. E si scopre che per Cavazzoni la comicità è la cifra autentica della letteratura
di Ermanno Paccagnini
È un testo che condensa le due anime di Ermanno Cavazzoni, questo Limbo delle fantasticazioni. L’anima narrativa: sia pur di un narratore che, sin dal suo esordio coi "lunatici", ama procedere per frantumazioni tipologiche, visitando successivamente "idioti", "scrittori inutili" e "giganti". E l’anima teorica, propria di chi all’università insegna Poetica e Retorica. Due anime che si incrociano e si fondono; e anzi, dove il suo narrare perde colpi è proprio quando una delle due viene momentaneamente meno. Accade così ad esempio nelle quattro paginette che dedica alla presenza dei numeri in letteratura (Consiglio sull’uso dei numeri in letteratura), proprio perché in sé concluse; a differenza di quando, in altre situazioni – e direi soprattutto nella prima parte del libro, ove la riflessione teorica è maggiormente presente – il divagare riflessivo, anche se talora eccessivamente insistito, confluisce nel divagare narrativo che funge alfine da chiusura del cerchio, recuperando situazioni ed espressioni iniziali, magari anche per ribaltarle. E questo è possibile proprio per via della opzione stilistico-espositiva: che è appunto oraldivagante, consentendo così a Cavazzoni di passare dalla riflessione più propriamente estetica a chiose ed esemplificazioni dissacranti, a una paradossalità che è al tempo stesso provocatoria e umoralmente – e anche malinconicamente – sentita. E sono anche le situazioni intrise d’un nero che ti portano ora a concordare, ora a riflettere se anche tu in qualche modo rientri in talune casistiche – che è poi, questa, una delle caratteristiche narrative di Cavazzoni – e, propendendo per il no, a dissentire.
Perché tutto si muove su un duplice binario. C’è quello più propriamente legato alla creatività; e qui entrano in campo le considerazioni sulle fantasticazioni e sul comico. E c’è quello che direi della "materalità" e che di quel primo aspetto è appunto momento secondo, come ciò che ha a che fare col libro, il mercato, l’industria culturale, l’editoria, la critica, la biblioteca: di quando cioè la fantasticazione trova la sua formulazione concreta. Ed ecco allora, in questo caso, i più tecnici Consigli per incominciare ("parti dalle interiezioni, che forse sono la parte più negletta della lingua scritta: ah, ahimè, porco cane eccetera. Parti da un bel oh perbacco, da cui poi ne consegue qualcosa": il tutto in contrapposizione ad incipit troppo grondanti letterarietà, esemplificati nel moraviano "Entra Carla…"). O i Consigli per pubblicare. E i Consigli per fiutare i libri: sul come coglierne l’anima, della cui essenza l’odore è cifra (il buon odore dei libri di Gozzano; quello di cetriolo dei libri di Sartre; e di cetriolo condito con deodorante ascellare della De Beauvoir). E l’Elogio dei principianti. "Dritte" lanciate tra il serio e il faceto, il paradossale e il malinconico, il divertito e l’arrabbiato per mettere in guardia chi sta ancora vivendo una verginità creativa non intaccata da velleità artistiche (la tensione alla letteratura, al capolavoro, alla Grande Opera dell’esordiente) da un "panorama della letteratura italiana fatto di ladri", che ospita scrittori falliti, editor ed editori sempre pronti a rubare e rivendere sotto proprio nome la creatività altrui loro ingenuamente sottoposta, guardandosi da un "mondo delle lettere" in cui "impera il dolo , la lesa proprietà delle opere, d’ingegno, la delazione, la corruzione, il nepotismo, la simonia"; e che ha nei critici dei "commissari politici" perdi più "ossessivi", "pervasivi", "autoritari", autentici "emissari dell’Onnipotente" e anzi, a dire il vero, dei "diavoli". Un universo nero dato con l’accumulo del negativo a mo’ di paradosso, che però, se nel caso dell’editoria recupera, sia pur tra sorriso e amara malinconia, un aspetto che da qualche anno è divenuto anche soggetto di thriller, nel caso del critico, pur nel centrare non poche amare verità (ovvio che me ne chiami fuori, "lettore" prima che critico), ha il difetto della riproposta, da un lato, del refrain ormai secolare del critico come autore fallito e permaloso e, dall’altro, dell’estiva chiacchiera imbratta giornali sulla morte della critica. Dove comunque è la provocazione, a funzionare. E in effetti non sai se è più nera questa immagine dell’editoria o, in Biblioteche infiammabili, il paragone tra biblioteche e cimiteri; meglio: la vivace malinconica visione delle biblioteche come cimiteri inquieti, con gli abitanti-libri pervasi dalla vana attesa che qualcuno li rivitalizzi, almeno momentaneamente. O ancora (L’impero telematico) il braccio di ferro tra quelle “piccole piramidi di Cheope” che sono i libri di carta e i “cadaveri in decomposizione” che sono, in qualità di autentici “naufraghi”, i libri in rete. Un capitolo, questo, che può peraltro anche ben servire a ri-cordare come diversi capitoli sano costruiti sull’attesa: con Cavazzoni che la prende da lontano, di-vagazioni che si trascinano sino all’esplosione finale: un susseguirsi di affermazioni che – come del resto è possibile col libro di carta - continui a marcare col lapis sul lato.
Il cuore del libro sta però altrove. Ed è in ciò in cui Cavazzoni si riflette. Qui davvero Il limbo delle fantasticazioni si offre come testo di "poetica". Là ove affronta il problema di scrittura e letteratura. È insomma il versante più teorico e ragionativo a caratterizzare il primo (Il grande limbo delle fantasticazioni), il quinto (La duplicazione del mondo: col problema della rappresentazione, della simulazione, dei simboli, delle ambiguità della definizione di Arte) e l’undicesimo capitolo (Un artista della scrittura: su arte e mania, accompagnandosi a Kafka). Ma dentro il mondo stesso di Cavazzoni, e nel segno di una leggerezza espositiva che si appoggia anche al racconto memoriale vero e proprio, si entra coi capitoli settimo e nono, dedicati rispettivamente Il comico senza strategia e La scuola del comico. Dove si annota che quella comica (quale che sia la specie di tale comicità) dovrebbe essere la cifra autentica di uno scrittore, relegando il non-comico nell’inautentico e nell’artificioso (e qui si svela anche il ruolo o maieutico o negativo della scuola, presenza anche nel capitolo dedicato all’odore dei libri). E è tale perché il comico è per sua natura spia della verità. E la verità è che l’umano non è perfetto; e che anzi si rivela sostanzialmente comico ove si vada a consi-derarlo nel pensiero e nella parola. E se il piano umano è allora quello dell’errore e approssimazione, dell’accavallarsi dei pensieri, il comico è lo strumento più adatto a rappresentarlo. Un comico "che non necessariamente fa ridere rumorosamente" (anzi!). E la fantasticazione ne è l’incarnazione, proprio in quanto contraltare del pensiero. Vien da qui infatti il comico: dall’urtarsi e contrastarsi di pensiero e fantasticazione.
E la letteratura? Ne rappresenta una via di fuga, di salvazione dalla medicalizzazione psichiatrica che colpirebbe tale schizofrenia. Sicché, essendosi "convenuto tra gli umani che la sovrabbondanza di pensieri ingarbugliati è un male", ecco allora la salvazione nel confinare il tutto "nella letteratura, che è un luogo più accondiscendente". Ed è l’ambiguità stessa della letteratura. Perché, anche là ove si esprime al meglio, nello sgangherato, non è mai un procedere automatico e ad aleam. E la riprova è nell’opera stessa di Cavazzoni: in ciò che lo fa scrittore. Sì nella frequentazione dei territori del pattume e della devianza. Ma senza che venga mai meno quel controllo dalla cui levità e impalpabilità nel ricomporre il tutto dipendono – e sono di volta in volta dipese nel corso del suo lavoro letterario - la riuscita o meno della fantasticazione affidata al libro.
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