"Quasi un altro libro" secondo Giulio Mozzi quello che viene ripubblicato oggi dai tipi di Laurana con due racconti in più e uno in meno rispetto alla prima edizione (Einaudi 1996). L'ispirazione di fondo però resta la stessa, quel senso di mancanza che muove i personaggi alla ricerca di un traguardo, che si tratti di Dio o dell'Apocalisse
di Stefano Nicosia
Ricompare in libreria La felicità terrena di Giulio Mozzi, anzi no. La raccolta di racconti uscita per Einaudi nel 1996 viene ripubblicata adesso con due racconti in più – Verde e oro e Gilda T. – e con uno in meno, Migrazione, e con uno scritto di Carlo Dalcielo: insomma per lo stesso Mozzi è "quasi un altro libro".
Si ricostituisce così, nella collana ‘Rimmel’ di Laurana, la coppia con Il male naturale (Mondadori 1998; Laurana 2011) e quel "grumo narrativo" che si era modellato intorno a due idee fondanti: la ricerca di una felicità possibile – intesa anche come riappacificazione con se stessi – e la visione di un male senza colpa che sta nei corpi. Le due raccolte si accostano l'una all'altra come due facce di uno stesso specchio, che nascono insieme ma guardano in modo differente e, appunto, speculare. Certe ricorrenze formano una rete di echi tra i due libri, come l’istituto per ragazzini di Una vita felice e di Super nivem, racconti legati tra loro perfino dalla ricorrenza di certe espressioni («All’Istituto degli abbandonati si mangiava molto e molto bene»).
Nei racconti che compongono La felicità terrena c’è il continuo dialogo con ciò che non è più, con i fantasmi della vita dei personaggi, soprattutto quando la narrazione è in prima persona. La mano tesa verso l’altro, nel tentativo di risolvere se stessi, passa attraverso le lettere e il ricordo; quasi un esercizio di ginnastica, per rendersi più elastico, per attutire i colpi. Non è un caso che il telefono abbia un ruolo centrale in Mozzi, soprattutto nel Male naturale, ma del resto anche in Sono l’ultimo a scendere (Mondadori 2009), seppur in maniera diversa. Attraverso l’apparecchio giungono notizie da altri corpi, le voci si incontrano o si eludono a vicenda, attraverso lo squillare nel vuoto si separano le vite.
La felicità non è, in questo libro, un premio cui si arriva, una sedia su cui sedersi e rinfrancarsi, e nemmeno il processo opposto all’autodistruzione, la contemplazione del male intimo di ognuno di noi. Mozzi è un osservatore troppo attento per non sapere che non vi è appagamento possibile, che Gilda T. nel suo letto di donna non più giovane e nubile non può trovare requie o che Paperoga deve affidarsi ad un continuo moto inquieto. Queste storie dicono sempre della necessità dell’essere umano di entrare in contatto con il prossimo, anche per poco, anche sfiorandolo o osservandolo. È tuttavia un contatto che sottende mancanza. Ogni racconto contiene o si fonda su un’assenza, nell’aspettativa di un completamento o nella perdita di una relazione.
A Giulio Mozzi bisogna essere grati delle crude rappresentazioni, che non vellicano il voyeurismo del lettore né tantomeno ne ingozzano il sentimentalismo. Volevamo scrivere "rappresentazione della vita", come se la letteratura servisse a questo. Ma i suoi racconti sono letteratura, e se si fosse tentati di chiedere loro quanto sono veri, quanto sono autobiografici, perché la letteratura con la vita dell’autore ci gioca, e viceversa, allora si sarebbe arrivati ad un punto morto, inutile. La sua scrittura chirurgica, le cui brevi frasi sono incisioni dei tessuti, non risparmia tutta la corporeità di cui siamo fatti: il sangue, gli organi, il sesso, la malattia, la follia, il dolore. Ma rispetto al Male naturale, lo scrittore allenta la tensione, smussa certe immagini senz’altro violente, ma di una "violenza" necessaria, che sta nelle cose.
C’è perfino – sperando non sia una considerazione abusiva – una sorta di movimento continuo verso dio (maiuscolo? minuscolo?), perfino alcuni brani dallo stile salmodiante, ad esempio in Una vita felice, che apre il volume. Forse non è un caso che Paperoga di notte, che invece il volume lo chiude (prima delle due appendici), si concluda con una profezia sul giudizio universale, anticipatrice di un terremoto. Non c’è, in questi racconti di fallimenti, di solitudini, di dialoghi a distanza con i morti, un pudore bugiardo, ma piuttosto del candore, a macchie, che tenta di risarcire della vertigine di turbamento che altrove, nel libro, affiora con forza.
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Giulio Mozzi, La felicità terrena, Laurana 2012
La citazione: "E ogni tanto scopro che in un tempo passato, ormai perduto, c’erano stati un giorno o un minuto che io avevo attraversati con i sensi ottusi e con il cuore congelato, ma nei quali c’era stata della felicità disponibile: e non l’avevamo neanche vista, oppure ci eravamo ritirati, per paura" (da Cose che succedono a Giulio).
L'autore: Giulio Mozzi è nato nel 1960. Lavora da tempo nell’editoria. Collaboratore prima di Theoria, poi di Sironi, è dal 2008 consulente di Einaudi Stile libero. Da due anni collabora con Laurana, che nel 2011 ne ha riproposto Il male naturale. Ha pubblicato raccolte di racconti, poesie e saggi, e non ha mai smesso di tenere laboratori di scrittura. Alcune lezioni le trovate in video, sul suo vibrisse.wordpress.com, bollettino di letture e scritture. Vibrisselibri è la sua casa editrice in rete, attiva dal 2006.
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