Nella seconda parte del cult fantascientifico tocca a Sam Flynn calarsi nel fantastico mondo virtuale creato dal padre, il leggendario hacker Kevin. Ennesimo sequel, dove la Disney fa uso degli effetti speciali più moderni per portare l'orologio indietro agli anni '80: ci riesce, ma solo con Jeff Bridges
di Andrea B. Previtera
Dev'essere un altro caso di eutanasia negata, ci dev'essere lo zampino del Vaticano. Entrati in coma circa vent'anni fa, gli anni 80 restano saldamente intubati e nutriti, di remake in remake, di sequel in sequel, di (sigh) reboot in reboot. Esaurita dunque in due righe la quota di prestiti linguistici concessa, veniamo all'oggetto della recensione: Tron Legacy.
Cosa accadeva nel 1982? L'Italia vinceva i mondiali di calcio, Villeneuve perdeva la vita in un incidente mortale, veniva istituita la giornata mondiale della danza, e la Disney usciva nelle sale con questo meraviglioso guazzabuglio luminoso intitolato Tron. Forse l'esperimento più audace di casa Topolino: un'estetica cyber-visionaria mai vista prima, ottenuta con tecniche incredibilmente dispendiose sia in termini di tempo che di denaro.
Quindi, Tron Legacy: nell'originale, in una trama piacevolmente puerile l'hacker / proprietario di sala giochi Kevin Flynn (Jeff Bridges) si ritrovava proiettato nel - uhm - mondo dei programmi informatici, cercando di liberarsi e liberarlo da una tirannide virtuale. Trent'anni dopo è il figlio dello scomparso Flynn, a visitare più o meno involontariamente i recessi della circuiteria di casa, alla ricerca del padre.
Ma la trama, come spesso accade per queste operazioni di defibrillazione, è per lo più irrilevante. Tron Legacy è soprattutto la scusa per richiamare dal pozzo delle memorie di culto tutta una serie di icone che inumidiranno l'occhio dei bimbi di allora e faranno stringere nelle spalle quelli di oggi: le moto luminose, le arene di combattimento, i dischi. Il resto è piuttosto confuso e confusionario, con tanta carne (virtuale) messa al fuoco (olografico) con troppa lentezza, mentre si incrociano improbabili metafore zen, copiature spudorate di personalità, ruoli e rapporti di Guerre Stellari, e goffe gomitatine al trentennio trascorso e al panorama hardware-software attuale.
Rispetto all'originale, un pizzico di maturità emana dai toni più cupi, quasi angoscianti (complice, oltre alla nuova veste grafica, anche l'eccellente colonna sonora firmata Daft Punk). E poi, poi, la chicca che manda un brivido lungo la schiena. Ma no, non agli spettatori: agli attori, piuttosto. Perchè davvero degna di nota è la presenza nel cast - senza voler rivelare troppo - di un secondo Jeff Bridges. Un Bridges trentenne dalla testa ai piedi, che farà aleggiare un brivido per le stanze dell'Actors Studio suggerendo che forse non manca moltissimo al pensionamento degli interpreti in carne ed ossa.
Quindi? Operazione nostalgia priva di qualità o degno seguito di una delle pietre miliari del genere sci-fi? Agrappato alle gonnelle del genitore, Legacy potrebbe ancora difendersi, ma sarebbe scorretto recensirlo in questi termini. E dunque, a denti stretti va ammesso: appena oltre la patina ereditaria, non c'è un granchè - una matrixata con i soliti ralenti e combattimenti tra campioni di ginnastica artistica, in salsa computer graphic.
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Tron Legacy, di Joseph Kosinski, USA 2010, 127 m
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