Il viaggio di madre e figlia in Albania per seppellire il padre/nonno si trasforma in una già vista sarabanda di luoghi comuni sulla società slava. L'autore di Balkan Bazar è l'ennesimo pretendente al trono di Fellini dell'est europa: peccato solo per le tante qualità sprecate
di Marinella Doriguzzi Bozzo
Una più o meno avvenente coppia di donne, madre e figlia, dimostra sin dalla scena iniziale di non saperci fare. Stanno cercando di rimpatriare in Francia le spoglie del rispettivo padre e nonno, ma, per un disguido, la salma del defunto ha preso la strada dell’Albania. Accompagnate - non si sa bene né come né perché - da un giornalista quasi improvvisato e dal suo cameramen, approdano dopo un po’ di inutili giravolte in un paesino ai confini tra la stessa Albania e la Grecia, che è la azzeccatissima location del film.
E qui si dà la stura ad ogni più vieto luogo comune sugli stereotipi della razza slava, combinando una sarabanda di interessi e di cialtronerie: tutti sono iperemotivi sia nella lacrima che nella rabbia, codardi, meschini, avidi, beoni, sessuomani, cornuti, bugiardi e via elencando.
Per un po’ si cerca di stare al gioco e di seguire l’intrigo - tra l’ingenuo e lo sfrontato - che verte intorno ai contrapposti interessi di bandiera, sempre addomesticati dai piccoli e grandi imbrogli di tutti. Poi si abbandona la partita, dopo avere incrociato il furto di reperti archelogici più o meno sacri, il disseppellimento di morti albanesi per colmare le fosse di un cimitero monumentale voluto dalla Grecia per i suoi caduti di guerra e altre fesserie al contorno - compresi i balordi e scontati incroci amorosi. Tutto così, alla rinfusa: la sceneggiatura è amatoriale e velleitaria, pur avendo avvertito lo spettatore che si tratta di una storia vera. Se è così mai causa o denuncia è stata peggio servita.
Perché il regista albanese (pare noto drammaturgo in patria) è una curiosa figura di italiano d’adozione che lavora da anni come operaio in una fabbrica di caldaie in Veneto. E sembra mescolare innegabili sapienze a sprovvedutezze smargiasse, che rivendicano una presunta autorialità, credono (o cercano) di strizzare l’occhio allo spettatore e probabilmente si prendono sul serio.
Ne nasce una sorta di pasticcio simile a quelle recite da filodrammatica, che ambiscono a portare su assi scalcinate una qualche commedia shakespeariana, tipo Tanto rumore per nulla, magari anche riesumando qualche vecchia reminiscenza fumettistica di umbertechiana memoria - vedansi le strisce di Cino e Franco ne La misteriosa Fiamma della regina Loana.
Diurni abbacinanti si alternano così a siparietti notturni dove tutti restano insonni pur di combinarne qualcuna, mentre la macchina da presa, sempre frontale, fa entrare e uscire gli attori dalla destra o dalla sinistra delle inquadrature, interrompendo ogni scena sul più bello - si fa per dire- come a significare che sarebbe volgare seguire la storiaccia, perchè il vero senso è altrove. Dove, non si sa bene, anche se appare evidente che si sta sfruttando un filone molto fintamente alla Kusturica, mentre si sarebbe dovuto eventualmente prendere a modello Cirkus Columbia (leggi la recensione).
E così non solo non si ride, ma nemmeno si sorride appena, anzi ci si stufa pure di cotanto cattivo gusto, proprio in quanto misto a qualche pregevole slancio: la magnifica scelta del paesello, appunto, alcune ottime capacità di ripresa e di fotografia, qualche scena corale scalcinatamente rurale (resa babelica da un doppiaggio abbastanza improvvido, con frequenti sottotitoli). E nel frattempo si tenta di far assurgere agli oggetti valenze simboliche: le bare, le ossa, le croci, la chiesa ortodossa e la contrapposta fede musulmana, la cinepresa, le bandiere, e perfino gli stereotipi dei personaggi. In un’ammucchiata senza capo né coda, che finisce quasi alla Fellini - espediente tipico di quando non si sa come terminare - come a significare che ogni credo è opinabile, rispetto al sempiterno interesse particulare degli umani, di qualsiasi razza o appartenenza.
Si torna a casa, riflettendo sul fatto che sia l’accettazione che il rifiuto della pellicola porterebbero allo snobismo, e con uno stato d’animo che ondeggia tra desolazione e simpatia indulgente - visto che alcune bravure sprecate fanno più tenerezza che rabbia. Un ultimo pensiero anche a quale cattivo consigliere possa essere l’autodidattismo o il dilettantismo ad oltranza a dispetto di quanto a lungo, per contro, questo film debba essere stato coltivato e sognato.
Tags: Balkann Bazar, Cirkus Columbia, Edmond Budina, emir kusturica, federico fellini, Marinella Doriguzzi Bozzo, recensione,
Ballkan Bazar, di Edmond Budina, Italia Albania 2010, 91 m
Commenti
Invia nuovo commento