Un cinema pieno di spettatori con gli occhi chiusi. Con Holy Motors il regista francese, con una provocatoria dichiarazione d’intenti che ricorda Lynch, sfonda (letteralmente) la quarta parete e mostra agli altri spettatori, a noi, che è tutta illusione
di Gabriel D'Amico

Un uomo d’affari si sveglia, saluta la famiglia e va a lavoro in limousine. Lungo il percorso sbriga compravendite finanziarie, fissa appuntamenti, ci aspettiamo che giunga da un momento all’altro in un ufficio ampio e illuminato. E qui arriva la prima sorpresa: l’uomo esce dai panni dell’affarista ed entra in quelli sbrindellati di una mendicante del lungosenna.
È solo la prima delle nove trasformazioni nella lunga giornata del pirandelliano protagonista, un momento assassino e un momento dopo grigio padre di famiglia, musicista, miliardario morente, mostro del sottosuolo. L’uomo si annulla nelle sue maschere e perde progressivamente consistenza, fino a scomparire nelle sue mille identità.
Holy Motors è un film che spiazza: proprio quando sembra di essere entrati nel mood della pellicola, ecco che le cose prendono una piega inaspettata. Tutta la prima parte appare come una riuscita ma banale performance artistica di un regista concettuale, talentuoso ma sterile, il tipico film per critici cinematografici. Poi il ritmo cala, ma la prospettiva si allarga e Carax svela il mondo del protagonista, un purgatorio in cui tutti sono condannati a recitare infiniti ruoli, dove nemmeno l’amore e la morte sono reali. E alla fine della giornata al protagonista rimane, in uno dei pochi momenti di autoconsapevolezza, solo una sigaretta malinconica e una brutta tosse.
E' quasi un adattamento apocrifo di Uno, nessuno e centomila in cui però il protagonista accetta consapevolmente di rinunciare a se stesso per godere di un’illusoria libertà frammentata in mille volti e altrettante storie. La vita è solo uno spettacolo cinematografico, un inganno in cui tutti vanno in scena e nessuno si comprende a fondo.
Il cineasta gioca con le immagini e con l’alternanza di generi, sostenuto benissimo dalle eccellenti prove di Denis Lavant, suo attore feticcio, volto di pietra e fisico circense. Si può rintracciare il filo della trama sotto metafore e suggestioni che solo con una visione superficiale sembrano non andare a parare da nessuna parte. In realtà è un film solido e ordinato nella sua follia anarchica, tenuto vivo dalla struttura a matrioska e dalla confezione di stupefacente professionalità. Verrebbe spontaneo dilungarsi a descrivere ogni sequenza, ma mai come in questo caso anticipare sarebbe un delitto: vale davvero la pena di entrare in sala a mente vergine e occhi bene aperti. Vi basti sapere che si passa dalla lussuria futurista in motion capture al rapimento di una modella-Madonna (Eva Mendes), vittima compiacente di un cannibale dal pene eretto e in vena di rappresentazioni cristologiche... E ci fermiamo qui.
Holy Motors sa essere divertente, malinconico, sorprendente e pieno di rimandi coltissimi e autocitazioni. Non è un film ‘facile’ nel senso che è rivolto a un pubblico ristretto: soprattutto nella seconda parte, in cui il gioco lascia il posto all’introspezione, può mettere alla prova la resistenza dello spettatore meno attento. Ma questo è cinema puro, surrealista, per appassionati. Gli stessi che, in un finale straniante, si alzeranno in piedi ad applaudire.
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Leos Carax, Holy Motors, Francia Germania 2012, 110 m

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