L'opera di Alban Berg nella regia di Peter Stein delude i melomani più tradizionali, ma convince per potenza espressiva di musica e voci
di Sergio Buttiglieri
In fondo Carla Bruni non ha inventato nulla passando dal padre (il saggista Jean Paul Enthoven) al figlio (Raphael Enthoven) senza soluzione di continuità. Situazione che, in qualche modo, fa il verso alla glaciale scioltezza della Lulu di Weedekind, da cui Alban Berg trasse questa sua opera, che ha debuttato per la prima volta a Zurigo, in forma di frammento, nel 1937. Bisognò aspettare fino al 1979 per rivederla, questa volta in forma integrale, con un terzo atto postumo (il compositore muore nel 1935) risistemato e completato in maniera impeccabile da Friedrich Cerha: andò in scena all'Opéra di Parigi con la indimenticabile direzione di Pierre Boulez, la sontuosa regia di Pierre Chéreau e le magnifiche scene di Richard Peduzzi.
Ora, questa nuova preziosa produzione scaligera aggiunge un ulteriore tassello interpretativo all'emblematica figura femminile che sa tanto di divinità distruttrice orientale: una scatenata indomabile Shakti dal destino segnato che, a furia di divorare energie negative, ne resterà vittima assieme all'amante lesbica, la contessa Geschwitz, interpretata con grande misura da Natascha Petrinsky. Un disilluso ritratto della voracità dell'uomo nel pieno della crisi del '29, che tenta di eguagliare lo smarrimento planetario dei nostri giorni. La musica dodecafonica berghiana, splendidamente diretta da Daniele Gatti, si amalgama mirevolmente con le voci del cast (prima fra tutte quella di Laura Aikin, indimenticabile sensualissima Lulu, dall'accento giustamente corrusco nei momenti topici, adeguatamente dolce in quelli introspettivi), ed è perfettamente in sintonia con le mire dell'autore, cinico osservatore di quella fauna da circo che, nel prologo, Berg ci illustra tramite la figura del domatore/autore.
Guardando questi personaggi privi d'anima che il genere umano ama soggiogare, oggi con gli iPhone all'ultima moda (che ci aiutano a far finta di essere in contatto col mondo esterno, mentre in realtà ci relegano in quel perfetto "cellulare" privo di vie di uscite se non virtuali), ieri con le ristrette convenzioni sociali e i rigidi clan di appartenenza (che tanto lavoro diedero a Freud e a tutte le successive correnti psicanalitiche), ci accorgiamo di quanto le situazioni, in forme apparentemente diverse, si ripetano.
A firmare la regia di questa affascinante apparentemente algida Lulu è Peter Stein, sicuramente uno dei più grandi registi teatrali del nostro tempo. A breve, fra l'altro, ci sommergerà di parole con il suo infinito discussissimo I Demoni di Dostoevskij, vero e proprio evento metateatrale che ci farà convivere con i suoi attori per oltre 12 ore di spettacolo. Ricordo ancora un suo inquietante chilometrico Tito Andronico di tanti anni fa, che seppe restituirci in tutta la sua tragica intima violenza una delle più intense opere di Shakespeare. Esattamente come in questa Lulu sventrata da Jack Lo Squartatore, ultimo di una lunga serie di uomini che l'attraverseranno senza mai riuscire veramente a domarla.
Lulu, grazie anche alle raffinate scene di Ferdinand Wogerbauer, elogio delle mille varianti del déco che incontra e dialoga con le atmosfere di Le Corbusier, calamita la nostra attenzione e ci ammalia, come ammalia tutti i personaggi di questa rara opera novecentesca di Berg. Successiva al suo mitico Wozzeck, Lulu magari non accontenterà il classico melomane orfano di arie verdiane, in compenso offre l'opportunità di riscoprire le sonorità della mitteleuropa, contaminate di dissonanze, di retrogusti jazz, di anticipazioni musicali inaspettate. Questa opera tradisce gli appassionati più tradizionali (facendoli persino uscire prima della fine), perchè è priva di quell'immutabile linguaggio desueto, ricco di lirismi, aulicamente ottocentesco, fuori dalla realtà anche dei suoi contemporanei. Qui occorre solo assaporare quanto il disordine dell'anima, come quello musicale, produca inedite armonie, cariche di sofferenze, disperazioni irrisolvibili se non attraverso l'artifizio dell'arte novecentesca, figlia del dubbio e dell'incompletezza.
Grande stagione, dunque, quella scaligera di quest'anno, forse la prima compiutamente ideata da Lissner. Iniziata con la dirompente Carmen della coppia Barenboim/Emma Dante, è proseguita con il visionario Tannhauser de la Fura dels Baus/Zubin Mehta, e ancora con il contestato duo Federico Tiezzi/Barenboim alle prese con il Simon Boccanegra, per concludersi a breve con il viscerale Faust di Nekrosius e Denève, che sicuramente non ci risparmierà ulteriori dissensi da parte del pubblico più cristallizzato.
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ALBAN BERG, LULU, REGIA DI PETER STEIN, DIRETTORE DANIELE GATTI
Ultime repliche: 23 e 30 aprile, Teatro alla Scala, Milano
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