Prepotenti e materialisti, padri e padroni con le mogli e con i figli, sono tanto uomini che fanno anche le veci delle donne. I protagonisti della commedia di Goldoni portati in scena da Gabriele Vacis non parlano più il dialetto e giocano con i temi forti dell'attualità: dalla "difesa del territorio" ai tagli alla cultura
di Giulia Stok
Chiariamo subito una cosa: ad essere rusteghi, cioè incivili, sono solo gli uomini. Sono loro che spadroneggiano su donne e figli, sono loro che fanno del materialismo un’ideologia da difendere, sono loro che si spaventano se qualcuno osa desiderare per sé qualcosa in più di un maiale a tavola e di un tetto sulla testa, sono loro a diffidare dello straniero, sono loro a ripetere come un mantra “son padrone in casa mia”. E non se ne salva uno.
Metà Settecento, ultimi anni che Goldoni passa a Venezia, repubblica ormai in decadenza: la borghesia commerciale mostra tutti i suoi limiti di classe dirigente e la società tende a chiudersi in frivolezze private. Lunardo, rustego per eccellenza, promette in sposa sua figlia Lucietta a Filippetto, rampollo dell’amico Maurizio, senza che i due giovani si siano mai visti. Non solo, i due padri concordano nel vietare anche un solo incontro fra i due prima del matrimonio. L’emancipata signora Felice decide far conoscere i due fidanzati, coinvolgendo nell’imbroglio la matrigna di Lucietta e la zia di Filippetto. I due si piacciono ma l’inganno viene scoperto e il matrimonio rischia di saltare, finché la parlantina della signora Felice non appiana tutto.
I rusteghi di Gabriele Vacis, benché non parlino in veneto stretto (accade solo nel prologo, e per fortuna) trasudano maschilismo padano, di arricchiti incolti appena scesi dai monti. Bravo Eugenio Allegri nei panni dei paesanotto, un po’ meno convincente Natalino Balasso come Lunardo - a tratti troppo carico nella sua rustichezza - ma irresistibile quando interpreta il duca, l’amico della signora Felice, parodia dell’aristocratico che spruzza di profumo il suo interlocutore a ogni battuta. Eh sì, perché qui gli attori interpretano più parti e, come spesso capita con Vacis, quando il loro personaggio è fuori scena loro invece in scena ci restano, e a volte interagiscono con gli altri. Probabile frutto dei tagli alla cultura, il gioco su più parti diventa il modo per stigmatizzarli: “Manca il duca, chi fa il duca? Dai, è facile”; “Allegri, hai una sedia? Daccela, scusa, che qui ne manca una”.
E non solo, ma non ci sono donne in scena: tutte le parti femminili sono interpretate da uomini, che prima si cambiano in scena a enfatizzare il loro travestimento, subito dopo però fanno dimenticare di essere uomini, non rischiando neppure per un attimo di cadere nel grottesco. Eccezionale in particolare Jurij Ferrini, nella duplice parte del rustego padre di Filippetto e della progressista signora Felice; bravissimo anche Daniele Marmi, zia di Filippetto. Questi uomini travestiti forniscono un completo campionario dei modi in cui una donna può reagire a un universo così violentemente maschilista: dalla sottomissione viscida, che arriva ad essere traditrice nei confronti delle altre donne – Lucietta – ai timidi rimproveri della sua matrigna, fino al coraggio della signora Felice, che riesce a vincere sempre con le parole, unica arma che gli uomini non sanno usare.
E Filippetto? Un inetto, completamente preda, da un lato, del dispotismo del padre, dall’altro, del decisionismo di Felice: unica speranza, che da grande non diventi rustego anche lui. Il conflitto generazionale è l’altro grande tema della commedia, esplicitato da Vacis nei commenti ai filmati d’epoca che ogni tanto irrompono in scena su un grande drappo bianco. Certo, i simpatici rusteghi nostrani degli anni Sessanta, come il grande Cecco Baseggio, impaurivano i figli per il loro aver fatto la guerra, il loro essere nati eroi; ma erano molto meglio di quelli di oggi, ché “se i padri non servono le vite dei figli, ma le divorano come Cronos, cioè le controllano o le ignorano, i figli diventano burattini o orfani. Che futuro ha un burattino? I fili. Un orfano? La fuga”, dice Alessandro D’Avenia.
Spettacolo complesso, zeppo di citazioni e curato fin nei più piccoli dettagli dei movimenti scenici e dell’efficace scenografia, che ha l’unico difetto di tardare un po’ a carburare: come sono fatti i rusteghi, forse per troppo allenamento, l’abbiamo capito fin da subito, e qualche maschia conversazione si poteva risparmiare. Del resto, che i discorsi siano una cosa da donne lo dicono perfino loro, convenendo che, se si vuole riuscire a punirle, l’importante è che non aprano bocca. E allora parliamo, parlate! Bastasse questo.
Tags: Carlo Goldoni, eugenio allegri, Gabriele Vacis, Giulia Stok, I rusteghi, maschilismo, Natalino Balasso, padania, recensione, Teatro Stabile Torino,
RUSTEGHI. I NEMICI DELLA CIVILTA’, DA CARLO GOLDONI, REGIA DI GABRIELE VACIS
Traduzione e adattamento: Gabriele Vacis e Antonia Spaliviero
Produzione: Fondazione Teatro Stabile di Torino, Teatro Regionale Alessandrino
Visto a: Torino, Teatro Carignano, il 22 febbraio
Prossimamente in scena: fino al 6/3, Torino, Teatro Carignano; 7/3, Lecco, Teatro della Società; 9-13/3, Trieste, Teatro Rossetti; 15-18/3, Udine, Teatro Giovanni da Udine; 19-20/3, Caselecchio, Teatro Testoni; 22-27/3, Verona, Teatro Nuovo; 29-30/3, Monfalcone, Teatro Comunale; 31/3, Gemona del Friuli, Teatro Sociale; 1-3/4, Pordenone, Teatro Giuseppe Verdi; 26/4-1/5, Genova, Teatro alla Corte
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Visto domenica pomeriggio al carignano: capolavoro!
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