Valter Hugo Mãe racconta le miserie degli ultimi in un paesino portoghese, tra sogni di aldilà, misteriosi delitti, amori scomodi
di Giovanni Zagni
L’apocalisse dei lavoratori è la storia di tante, incolmabili distanze. Tra il mondo del colto e solitario signor Ferreira e quello della sua donna di servizio, Maria da Graça; tra la sua amica Quitéria e i suoi giovani amanti, immigrati da luoghi lontani in un angolo del Portogallo che li accoglie distratto e diffidente. Ciascuno alle prese con la difficoltà di tirare avanti ogni giorno senza motivazioni e senza speranze, obbligato a fare i conti con misteri scomodi e opprimenti: la morte, l’amore, il pensiero dell’aldilà.
Materiali che, per essere maneggiati, hanno bisogno di uno scrittore davvero dotato. Il pericolo della frivolezza e della banalità è dietro l’angolo. Ma Valter Hugo Mãe possiede quelle doti, e racconta le storie che si intrecciano nella piccola Bragança attraverso il continuo cambio dei punti di vista, dando voce ai pensieri dei suoi personaggi dalle vicende così plausibili e così dolorose.
Il filo conduttore del libro è la figura di Maria da Graça, una vita monotona e un marito che disprezza; come unico svago, le conversazioni con la sua vicina Quitéria. I suoi sogni, che la vedono sempre davanti alle porte del paradiso, sono sgradevoli e ripetitivi: persino nell’immaginazione dell’aldilà le sono negate la purezza e la bellezza. Per lei, come per i tanti “lavoratori” del romanzo, il passato ha portato solo dolori e non c’è in vista alcuna redenzione. Nulla in cui sperare, per gli “ultimi”: mentre nei pensieri del signor Ferreira, anziano benestante che ama i libri e la musica – ma che non è certo esente da gesti meschini e violenti – non si entra mai, come se fosse un mondo differente e incomprensibile.
Lentamente poi il libro si arrossa, comincia a grondare sangue: la morte, che aleggia sin dalla prima pagina nell’atmosfera cupa del romanzo, si concretizza nei delitti inconfessabili che popolano il delirio del padre di Andriy e nei gesti tragici, come quello che chiude il romanzo. Eppure lo stile rimane impeccabile, non indulgendo mai in particolari morbosi, preoccupato soprattutto di dare un senso ad ogni incontro con la morte.
La scrittura di Mãe è interamente in lettere minuscole, contro ogni convenzione grafica. Spiega l’autore nelle interviste che la sua curiosa scelta è anzitutto “di stile”, per velocizzare la scrittura e avvicinarla al parlato. L’impressione sul lettore è piuttosto di disagio straniante, accentuato dal fatto che il testo è scandito solo da punti e virgole, la punteggiatura ridotta al minimo, addirittura senza alcun segno che marchi i dialoghi.
Difficile trovare temi più importanti di quelli che L’apocalisse dei lavoratori prende di petto. Su ciascuno, Mãe riesce a dire una parola attraverso le vicende che racconta con distacco (mai freddezza) e precisione. Vicende spesso disperate: anche se dietro la porticina, come nella parabola kafkiana del Processo, si intravede un barlume di luce.
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VALTER HUGO MÃE, L’APOCALISSE DEI LAVORATORI, CAVALLO DI FERRO, P. 171, EURO 15
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