In un libro tutte le nevrosi dei personaggi di Schulz: dalla paura di non ricevere lettere d'amore, fino alla megalomania di Snoopy. Perché è vero che i fumetti sono pieni di sensi simbolici e metaforici, come ci hanno insegnato Calvino, Eco e tanti altri. Ma il senso principale resta quello: far ridere.
di Daniel Agami
"Cos’è un po’ di orgoglio quando c’è di mezzo il tuo stomaco?"
(Snoopy, erroneamente attribuita a Charles Schulz)
C’è solo un caso in cui si può essere favorevoli alla pena capitale: a chi ha capito tutto, il lusso di sapere quale è, ma noi che non abbiamo sinceramente ancora capito niente della vita nel suo divenire quotidiano, sospettiamo che possa essere per le persone che pensano che i fumetti (e nell’esempio i Peanuts) siano cosa da bambini, o che ricordano di averli letti "quando ero ragazzino" (dicono proprio così, senza pudore). In una società realmente civile questo sarebbe un reato, ed è altrettanto dimostrabile come la lettura quotidiana dei fumetti scritti e disegnati da Charles Schulz inibisca all’omicidio e al suicidio: davvero, e per riportare la pubblicistica ad una empiria sperimentale, il recensore ha provato, e leggendo ogni giorno un’annata di tavole domenicali, ha evitato di concretizzare due assassini meditati. Le recensioni devono ogni tanto rischiare un’affermazione, la nostra sarà: leggete i Peanuts, e quel giorno sarà impossibile per voi uccidere ed uccidervi.
È invece più semplice spiegare chi ha ucciso i Peanuts, nonostante l’encomiabile unicum di Schulz, che ha vietato ogni continuazione della serie a fumetti da altri autori nel 2000, poche settimane prima di morire (i Peanuts sono nati con lui e con lui sono morti) e che ne preserverà la specie: la lievitazione a moda culturale, che ha appaltato per molti decenni i personaggi di Schulz proprio a masse sui cui il fumetto indirettamente satireggiava (gli intellettuali snob, e in Italia un vizioso eccesso semantico trasformò l'occuparsi di Snoopy e company in provocazione culturale; gli anticonformisti oltranzisti, che protestano per protestare), e che ha finito per rendere antipatico il fumetto ideologizzato suo malgrado; oppure l’attuale moda culturale del fumetto realistico, che mescola il genere dell’inchiesta, del saggio e del reportage al linguaggio del fumetto. Frutto di un malinteso teorico, perché se la letteratura declina meglio il reale immaginandolo simbolicamente che non descrivendolo letteralmente, il fumetto mal si confà a cedere le proprie peculiarità tecniche immaginifiche e diventare testo di cronaca.
Le quattro stagioni
Ma è proprio nella lettura dei fumetti di Schulz che si avvalora l’aforisma "nulla è più realistico del visionario" di Federico Fellini, conoscitore ed ammiratore di Schulz (e che conobbe nel 1992, con l’intermediazione del giornalista Vincenzo Mollica): le quotidiane non avventure di Charlie Brown, Snoopy e gli altri sono proiezioni immaginarie della loro (e nostra) fantasia, eppure significano perché crudamente e crudelmente realistiche, realizzano cioè l’inconnu che nessuna spietata autocoscienza ci concede pensare e proferire, esprimono tutte le pulsioni emotive che abbiamo dentro le scarpe, il fine primo e ultimo di ogni letteratura. È nella faticosa e naturale alternanza delle stagioni che le tavole domenicali (ed anche le strip quotidiane) trovano il loro milieu caratteristico: come nel Marcovaldo ovvero le stagioni in città di Italo Calvino (1963), le stagioni lasciano esprimere ai personaggi la propria natura, e la ricerca di una natura.
I primi mesi dell’anno saranno caratterizzati dalla fobia di Snoopy, notoriamente sopito sopra la cuccia e non dentro, che la nevicata al risveglio non sia neve ma ghiaccio, e di essere rimasto cieco; a febbraio Charlie Brown ritroverà il timore di non ricevere lettere d’amore per San Valentino (battuto persino dal proprio cane Snoopy), e la stessa timidezza-ostacolo per scrivere, parlare o giocare, nella noia solitaria degli intervalli scolastici, con la misteriosa bambina dai capelli rossi (che proprio in questo decennio non fa la sua comparsa, perché sempre fuori campo); la primavera sarà segnata dalla tragica traduzione sportiva del gruppo di amici nelle improbabili partite di baseball, dove persino il cane gioca (male) e vince; l’estate segnerà l’ennesimo tranello di Lucille Van Pelt ai danni di Charlie Brown, l’illusione di tenere ferma la palla ovale per lasciargliela calciare (e immancabilmente la leva, e Charles casca e non lo sopporta); l’autunno riproporrà la moral suasion venatoria di Frieda affinché Snoopy vada a caccia di conigli (prima non sa nemmeno come è fatto un coniglio, poi ci diventa amico fino a diventare accanito lettore dei libri dei Sei Coniglietti), e l’inverno riproporrà la neve, tra la gioia coreutica del cane Snoopy (che ama la neve, e non la deve spalare) e la recita di Natale di Linus Van Pelt con le improbabilissime genalogie veterotestamentarie da imparare a memoria.
L'evoluzione del cane
Ma queste sono solo variazioni sul tema, che stimolano quell’essere in bilico tra se stessi ed il mondo che è proprio delle maschere, e non è impropria l’analogia che fa il critico d’arte Marco Bussagli (In XX Secolo- Fumetto, Electa 2003) tra i Peanuts e le monadi senza porte né finestre della Monadologia (1720) di Leibniz (come i biscotti, ma è il filosofo): i Peanuts sono bambini (ed animali) tutti nevrotici, chiusi in sé stessi e nei loro deliri onirici e fobici, nelle loro pulsioni e per questo non si può esserne emotivamente immuni. È nevrotico Charles Brown, nella sua goffa anonimità da everyman, incapace di un carisma sociale sempre più indispensabile; è nevrotica Lucille Van Pelt, nella sua leggiadra arroganza, nelle pretese psicoterapiche, nell’irascibilità e nell’amore non corrisposto con Schroeder; è nevrotico il bambino biondo Schroeder, geniale succedaneo di Beethoven, in perenne contrasto tra la propria età anagrafica ed una carriera da genio musicale; è nevrotico Linus Van Pelt, in contrasto tra sacro (La Bibbia) e profano (la coperta), tra la propria sensibilità espressa nella religio (è un promettente teologo ed esegeta biblico) e quella della superstitio parareligiosa (è cultore pagano della divinità della Great Pumpkin, la zucca del 31 ottobre, in Italia cristallizzata nella traduzione di tempi lontani da Halloween come l’improprio - anche per la stagione - Grande Cocomero). Persino gli uccelli (Woodstock non c’è ancora, o forse compare, ancora anonimo, sul finire del decennio) sono nevrotici, incapaci di affrontare serenamente le stagionali migrazioni o la più elementare teoria del volo.
Ed è nevrotico Snoopy, il personaggio che più si evolve, narratologicamente, nel corso del decennio: nei primi anni ’60 si mantiene ancora nella sfera canina, ma poi abbandona sempre di più l’andamento da quadrupede, cammina a due zampe, abbaia sempre meno, avviandosi al suo delirio antropomorfico arrivando alle soglie dei ’70 (il miglior decennio per il personaggio e per la serie) come un cane che non riconosce più di essere cane, ovvero gioca, la tracotante ubris dell’antica letteratura greca. Snoopy sogna talmente tanto che gli esce (metaforicamente) sangue dal muso, ed anche le raffigurazioni dei propri sogni cambiano: se nei primi anni della decade le immaginate avventure del soldato della Prima Guerra Mondiale (all’occorrenza anche aviatore) sono raffigurate nel solito giardino domestico, dove una cuccia è una cuccia, successivamente Schulz ci fa immaginare assieme a lui, e vediamo il soldato Snoopy guadare fiumi, arrivare a Parigi (desertica, con una stilizzata Tour Eiffel), entrare nelle osterie a bersi una birra od un’orzata, come fosse veramente là.
Ma sono le proprie pulsioni oniriche estreme ad essere realistiche per noi che leggiamo, e sogna talmente tanto da starci male (letteralmente febbricitante, si rifugia nel letto del proprio padrone che chiosa: "Queste missioni cominciano ad essere troppo per lui!"; talvolta coinvolge nei suoi deliri gli altri personaggi, arrivando a dire del gioco onirico: "Ho esagerato"). Ed è in questa decade che inizia l’attività del famoso scrittore (il romanzo Era una notte buia e tempestosa, breve e asindetico), ma anche del famoso avvocato, del famoso chirurgo, del famoso assistente psichiatrico, del campione di pattinaggio, del famoso skater, tutti famosi e importantissimi in una civiltà in cui non si può essere non visibili (prima di facebook) e l’anonimato non paga, o si sdoppia nel vitello sperduto, nel pastore, nel bracchetto pasquale, nel coniglio.
Il fumetto preso alla lettera
Tutti nevrotici, chiusi nel proprio delirio di sogni e bisogni. Però i Peanuts rappresentano anche il contrasto tra un’innegabile tendenza carceraria individualistica, ed il tentativo-sogno-utopia di una collettività, di un unanimismo caro al poeta Giuseppe Ungaretti: è tentata collettività la partita di Baseball, ma ancor più le scene più efficaci sono proprio quelle in cui ogni bambino si scontra con le idiosincrasie e le nevrosi dell’altro, Snoopy compreso. O, in altre parole, tra la propria solitudine (onirica di Snoopy, sportiva sentimentale di Brown, ludica e spirituale di Linus, musicale artistica di Schroeder, igienica di Pig Pen) e quella altrui.
Nei Peanuts (soprattutto negli anni ’70, di cui i ’60 sono indispensabile viatico) c’è tutta la letteratura: azione, epos, eros, tragedia, comico, satira. Ma è fare un torto ridurre i Peanuts ai sensi simbolici, allegorici e metaforici (innegabili), è una colpa culturale attribuibile ad Umberto Eco, Italo Calvino, Elio Vittorini che pregevolmente semantizzarono il fumetto. Perché i Peanuts sono un tempio del comico, ed hanno un senso edonisticamente letterale: l’intrattenimento, la capacità di fare ridere, e divertire, che è sempre (far) pensare, quel che resta della propria gioventù.
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CHARLES MONROE SCHULZ, IL GRANDE LIBRO DEI PEANUTS - LE DOMENICALI DEGLI ANNI ’60, A CURA DI STEFANIA RUMOR, BALDINI CASTOLDI DALAI 2009, P. 268, EURO 40
Note al libro: prosegue l’opera omnia su Schulz che da tempo Stefania Rumor cura in vari formati. Nella speranza che non inflazionino troppo il materiale, e continuino in un lavoro meticolosamente filologico, il volume si avvale della traduzione e del lettering di Diego Ceresa, il migliore (e più premiato) letterista italiano e calligrafo della letteratura disegnata, già in forza alla Disney. Con un solo refuso
Giudizi altrui/1: "Ma è proprio nei discorsi di questi bambini, ora ingenui, ora 'saputi', nelle loro confidenze, nei loro sogni e nelle loro convinzioni che noi troviamo riflesse, in uno specchio non sappiamo fino a che punto deformato e deformante, le nostre nevrosi da adulti" (Franco Fossati, 1969)
Giudizi altrui/2: "Trovavo persone che ridevano (…) e cercavo questa parte di comico senza trovarla (…) ho scoperto che i fumetti di Charlie Brown sono assolutamente realistici (…) Charlie Brown sono io. Da questo punto ho cominciato a capirlo. Altro che comico, era tragico, una tragedia continua. Ed ecco che finalmente ne ho cominciato a ridere" (Oreste Del Buono, 1969)
Giudizi altrui/3: "Snoopy non ci descrive, ma ci racconta da dentro, ci percorre. Attraversa i tanti nostri modi di essere, quelli che non abbiamo il coraggio di svelare troppo apertamente, noi uomini, uomini adulti, uomini seri, responsabili. Grandi" (Walter Veltroni, 2002)
Giudizi altrui/4: "Antistrofe continua ai patemi d’animo, il cane Snoopy porta all’ultima frontiera metafisica la nevrosi da mancato adattamento". "Esagerato…" (Umberto Eco, 1965, chiosato da Marco Giusti nel 1993)
Giudizi altrui/5: "Snoopy è tutti noi e tutti i cani della terra; prima ancora della razza canina, è la razza umana che rappresenta" (Federico Fellini, a Vincenzo Mollica, 1992); "Sono sconvolto dal semplice fatto che Fellini sappia che sono vivo" (Schulz a Vincenzo Mollica, 1992)
Commenti
bellissimo questo articolo
bellissimo questo articolo
tu riesci sempre a
tu riesci sempre a sorprendermi!!! io detesto: "l’attuale moda culturale del fumetto realistico, che mescola il genere dell’inchiesta, del saggio e del reportage al linguaggio del fumetto" w snoopy ;)
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