In The Help la discriminazione parte dal bagno. Alle governanti 'colored' nella ricca provincia americana d'inizio anni '60 sono delegate tutte le cure domestiche ma non l'accesso alla toilette. Una scrittrice se ne accorge e decide di scrivere di loro. Nel film di Tate Taylor è molto facile seguire la trama e fin troppo condividere la causa
di Marinella Doriguzzi Bozzo
Da qualche film a questa parte (J.Edgar, La talpa) sembra di assistere ad una messa in ombra dell’ispirazione registica a favore dell’esaltazione della scenografia, intesa in senso lato come location, ambienti, costumi, trucco. Infatti, anche in questo caso, i primissimi anni sessanta nella città di Jackson-Mississippi, sono ricostruiti con acribia sapiente: non si trascura nulla, dalle cucine ai salotti, passando per le suppellettili, ai vestiti, agli accessori, ai capelli caramellati di lacca. Essendo poi un'operazione tutta al femminile, dal punto di vista estetico è come andare a nozze. Naturalmente, tanta sapienza (ammesso che venga percepita e non data per scontata) non fa che da cornice ad un argomento serio, trattato in modo diligentemente edificante.
Nell’arco di tempo fra l’insediamento di Kennedy e il suo assassinio, il regista Tate Taylor mette in scena l’alter ego di Kathry Stockett, autrice che sta spopolando con l’omonimo romanzo da cui il film è tratto. Che incrocia il punto di vista de Il diaro di una cameriera, pubblicato nel 1900 da Octave Mirbeau, con varie altre opere di genere, quale ad esempio Il colore viola, di Alice Walker (1983). Perché l'argomento è il razzismo: addomesticato in quanto domestico, ma non per questo meno miliante e violento. E che si potrebbe riassumere in una frase ironica: seni in comune, sederi separati.
Tutto inizia in un agglomerato femminile di sfaccendate abbienti, che delegano alle loro cameriere di colore ogni attività lavorativa, tranne l'usufrutto dei mariti, che rimangono sullo sfondo come vili orsi paganti. Così, tra un torneo di bridge, una riunione filantropica del circolo, lo sfoggio del proprio piccolo classismo provinciale e il continuo sgranocchiamento di dolci confezionati dalle tuttofare, si svolge una partita di grettezze e ottusità crudeli, in cui le domestiche sono cose necessarie, purché non contaminino i water dei padroni. Mentre infuria la battaglia "civile" sui bagni separati, i figli sono accuditi, amati, educati e stretti al sempre abbondante petto da quelle stesse creature che devono vivere come automi efficienti, ma invisibili e privi di deiezioni... Ne è cosciente l'unica giovane non accasata della comunità, che vuole fare la scrittrice, e che con fatica comincia a raccogliere le testimonianze delle due uniche domestiche disponibili. Intelligenti, sensibili, tuttorecchi, e, logicamente, molto meglio delle padrone; nonchè terrorizzate dal Ku Klux Clan, che nel film è solo una sigla. Di qui le loro storie sia private che di categoria, fino all'immancabile riconoscimento, che apre il primo varco verso un cammino lungo e - Obama o meno - non ancora concluso.
Giocato tra donne, intriso di chiacchiere, oscillante tra i ritratti singoli e l'affresco "interno"di una comunità, il film è fatto per piacere: si sa con sicurezza da che parte indignarsi, e tutto è esplicitamente illustrato come nei manuali, disegni e avvertenze comprese, così non ci si sbaglia. Si segue bene, insomma, e se ne sopporta di conseguenza l'eccessiva lunghezza, visto che il tema è chiaro, lo svolgimento didascalico, le trovatine esemplificatrici opportunamente calibrate e ripetute, tra il dolente e il faceto, con grande spolvero di sanitari. E qualche piccola ingegnosità verbale qua e là ("siamo scure per aver bevuto troppo caffè") tale da far somigliare tutta l'opera all'accattivante "cake di cioccolato alla cacca" che trascorre a più riprese lungo la pellicola, vendetta maligna di una subordinata impertinente nei confronti dell'odiosa datrice di lavoro che l'ha licenziata.
Il tema sia della lotta di classe (qui enfatizzato dal risvolto 'colored' e dalle prime rivendicazioni femministe), sia di quelli che osano da soli, gettando i primi semi di una serissima rivolta etica e di costume, è sempre accattivante. Conferisce un comodo coraggio agli spettatori, non li costringe a riflettere troppo, raccoglie raucedini e consensi - anche se verrebbe da chiedersi quanti, fra coloro che si strusciano commossi sulle poltrone, votino Lega, per esempio. Magari non accorgendosi, come spesso accade, che il tema dell'immigrazione ha lo stesso segno dell'assunto del film.
Conduce con volontà entusiasta e modesta quanto astuta vis drammaturgica un maturo regista-sceneggiatore, che sembra volersi incarnare nella giovane inesperienza dell'autrice protagonista, a dar la sensazione di intendersene di femminile. Si ricalcano facili e anche simpatici stereotipi lungo un temino affettuosamente compitato, che non risparmia le corde della complicità, della fierezza, delle antipatie, delle rivalità, così come delle improvvise resipiscenze da parte - guarda caso - delle due sole anziane e menomate del gruppo: una afflitta da Alzheimer, l'altra alfin morente.
Si passano due ore abbondanti, e si esce con la sensazione di essere migliori, se non superiori, tanto il razzismo riguarda sempre gli altri. Moralmente vale forse il prezzo del biglietto ché un bel ripasso non guasta mai; cinematograficamente, si potrebbe chiedere uno sconticino.
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The Help, di Tate Taylor, USA 2012, 137 m
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