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FILM

Io Bertolucci e tu

L'ultima pellicola di un grande che invecchia tra alti e bassi e torna su uno dei suoi temi caratteristici: quello di un luogo chiuso, una cantina, dove i due giovanissimi protagonisti estratti dal libro di Niccolò Ammaniti, regrediscono a un rapporto tra uomo e donna "primordiali". 


di Marinella Doriguzzi Bozzo

 


La buona notizia è che una volta tanto non abbiamo letto l’omonimo libro di Niccolò Ammanniti da cui il film è tratto, e quindi siamo esentati, volenti o nolenti, da qualsiasi confronto proprio e improprio. La cattiva notizia è che il tempo non solo passa, ma con Bernardo Bertolucci si è anche comportato male, inchiodandolo su una sedia a rotelle: lui, il regista della danza come liberazione e delle solitudini multiple come catarsi.
 
Che si tratti di un film d’Autore lo si vede fin dai titoli di testa: sobriamente bianchi su fondo nero, come negli anni sessanta, se si eccettua il vezzo moderno dei cognomi impressi in rosso; e lo si desume dai dettagli, nonostante il tema del luogo chiuso sia un prolungamento di Ultimo tango a Parigi (1972), L’assedio (1999), The dreamers (2003) perdendo comunque di magia con l’avanzare degli anni.
 
Il perché non è così facile a spiegarsi: sembra che il regista scelga i suoi interpreti e si appropri della loro storia non tanto in qualità di professionista, ma sotto la specie di uomo con molteplici rimpianti, sommandosi i limiti della maturità ai vincoli dell’impedimento fisico. Per cui i due protagonisti sono come vampirizzati da qualcuno che si appropria dei loro corpi e, pago anche solo di questa vittoria, vi si prolunga o addirittura vi si reincarna. Non acquisendo più la bellezza degli attori come elemento distintivo, bensì le difettosità abbozzate della giovinezza come emblemi di un momento che non torna, perché ha ancora bisogno di un futuro per completarsi ed esprimersi.
 
Così il quattordicenne Lorenzo è un accumulo di brufoli in un’epoca in cui l’acne è ormai sconfitta, si rapporta ad un ritmo interiore dettato sia dagli umori come dalla musica in cuffia, e la goffaggine motoria dell’adolescenza è affidata al fruscio ventoso di felpe e materiali tecno nonché alle protesi di zaini voluminosi, traslocatori quotidiani di insondabili continenti. Mentre la ventitreenne sorellastra Olivia concentra nell’altezza stilizzata, nella rigogliosità della biondezza e dell’accento siciliano il prolungamento dell’età di Lorenzo, minata da un passato e-forse-da un futuro da eroinomane (con crisi di astinenza avulse da qualsivoglia realismo clinico).
 
Per circa una settimana i due regrediscono alla condizione quasi fetale di primo uomo e di prima donna sulla terra, asserragliandosi per motivi diversi in una cantina. Che li obbliga ad una promiscuità della carne che lentamente si addolcisce nel reciproco riconoscimento degli affetti. Mentre la solitudine che li ha portati lì resta fuori, sospesa nell’eterno grido di furore e passione, fragilità e ribellione che accomuna i giovani nel loro contraddittorio atteggiamento verso un mondo di simili e di dissimili: “Portatemi con voi” e “Non mi avrete mai”. Come a sottolineare il bisogno di un’identità distintiva che schiva la tentazione dell’omologazione e vuole quindi maturare nell’isolamento, ma paradossalmente ha bisogno del confronto, se non con la comunità, almeno con l’altro. Per concentrarsi ancora un po’ nel calcolo dello slancio, prima di proseguire o di perdersi.
 
Il copione ha un prologo famigliare ambiguamente goffo e si dipana fortunosamente tra piccole forzature e ingenuità, mentre il carattere dei protagonisti è affidato alla loro fisicità, agli atti che compiono e alle parole che dicono piuttosto che alla perizia della recitazione, tra sgradevolezze e esteriorizzazioni consolatorie letterarie e abbastanza stereotipate.
 
Rimangono pertanto l’ambientazione (che da rifugio ostile si fa a poco a poco nido, in modo da determinare lo schiudersi delle prerogative dei due) e la maniera di girare, tale da considerare il mondo circostante secondo l’orizzontalità dei dormienti. Perché è nelle primarie necessità fisiologiche e nel bisogno di stare sdraiati a condividere il buio che l’intimità coatta diventa prima avvicinamento, poi scambio spontaneo e infine punto di vista da cui guardare agli accadimenti.
 
Le qualità del grande cineasta si colgono dunque nei particolari, dal modo di inquadrare il misterioso arrivo di lei all’ordine meticoloso di lui, che colloca geometricamente le vettovaglie, osserva un formicaio con la lente, schiva una madre di maniera e un padre lontano. Ma mancano le emozioni accerchianti, le rivelazioni che una storia dilata nella coscienza degli spettatori, senza che gli elementi visivi rimangano corticalmente nella memoria.
 
Per cui, mentre da un lato plaudiamo al ritorno di un regista disuguale ma comunque amato, auspicando che questa nuova ripresa possa più ispiratamente proseguire, dall’altro ci poniamo una domanda: cosa può dire questo esile film a cinefili smaliziati ma non celebrativi a prescindere, nonché ad un largo pubblico, giovane o meno che sia?



Tags: Bernardo Bertolucci, Io e te, Marinella Doriguzzi Bozzo,
12 Novembre 2012

Oggetto recensito:

IO E TE, di Bernardo Bertolucci, Italia 2012, 97 m

 

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