Nel futuro immaginato da George Nolfi per il suo film, alcuni misteriosi 'uomini col cappello' vigileranno sulle sorti degli umani. Tra questi un promesso candidato alla presidenza degli Stati Uniti (Matt Damon) che viene traviato dall'amore per una bella ballerina.
di Marinella Doriguzzi Bozzo
Si vede proprio che non si sa più a che santo votarsi, perchè nel giro di poco tempo tornano di prepotenza gli dei: riesumati rispettivamente nell’ultimo libro di John Banville, Teoria degli infiniti (2011) e in questo film, tratto da un racconto di Philip Dick, esimio scrittore non solo di genere, ma noto ai più almeno per aver ispirato il celeberrimo Blade runner (1982).
Nel contempo, pare affermarsi una fantascienza di nicchia, esente da effetti ed effettoni speciali, bensì più attenta all’uomo e alla sua sorte sullo sfondo di una ambigua erosione della realtà, come per esempio nel film contemporaneo di Duncan Jones, Source code (leggi la recensione).
Qui siamo, almeno visivamente, dalle parti di Magritte, con una New York invasa da misteriosi burocrati contrassegnati dal cappello al posto dell’aureola, attenti a vegliare sulle fortune degli umani, programmate fin dalla nascita. Sono entità benefiche che non possono permettersi distrazioni, pena lo scatenarsi della prima, seconda guerra mondiale e giù elencando con gli orrori dell’ultimo secolo.
Perché gli indigeni della terra pensano con la pancia, non sanno essere in positivo arbitri delle loro traiettorie di vita, e hanno bisogno di qualcuno che di fatto li sottragga al libero arbitrio. Sempre a fin di bene, e in funzione della collettività, seppur a discapito delle pulsioni. E la dimostrazione degli interventi e non interventi di questi esseri superiori si riscontra nella storia: assenti nei periodi bui del medioevo, vigilmente presenti nell’umanesimo, nel rinascimento e così via.
Ma la teoria la scopriamo cammin facendo, mentre nella pratica chi se la deve vedere con loro è Matt Damon, legnosamente diligente nella parte di un giovane candidato quasi vincente nella corsa ad un posto da senatore. "Quasi", perché mentre è a un passo dall’elezione, incontra -fortunosamente: in una toilette per uomini - la donna della sua vita. E l’amore, completandolo come uomo, potrebbe distrarlo da un futuro prestigioso, forse anche dalla presidenza degli Stati Uniti. Perché l’ambizione e la spinta vincente che ne deriva è di fatto un surrogato ai vuoti determinati dall’assenza di affettività ricambiata.
Non la pensano così i due protagonisti della vicenda, ostinatissimi nel rinunciare a tutto tranne che a loro stessi, scatenando una sorta di guerra attraverso gli anni, in cui le forze dell’autodeterminazione personale si scontrano con i meccanicismi del vantaggio collettivo, spesso rovesciando senza volerlo il gioco delle parti. Infatti talvolta le entità appaiono come forze impiegatizie affaticate e rigide, prone a loro volta ad una misterioso soggetto superiore, mentre gli umani, nel loro disordine emotivo, tentano di esprimersi a parole loro, rinnegando la stratificazione piramidale delle opportunità sociali. Tanto che si potrebbe anche rovesciare il titolo ne Il destino dei guardiani.
Impropriamente spacciato come thriller, ricco di spunti speculativi affascinanti e forte di un’inventività fotografica e scenica a tratti di grande presa, il film pasticcia qua e là, perdendosi, dilungandosi e ripetendosi, fino a rendere quasi melensa la vicenda amorosa, emblema al centro del contendere. Dividendo in due gli spettatori: alcuni più disposti ad un apprezzamento positivo, altri pronti a coglierne gli innegabili difetti. Questione di disponibilità meramente soggettiva, ché la prova avrebbe potuto essere sia originale che trionfante con una sceneggiatura concettualmente più forte e narrativamente meglio strutturata, una regia meno tentennante tra sicurezze folgoranti e incertezze bislacche e una coppia centrale, se non più glamour, almeno più convinta.
Eppure, molti sono anche i pregi: si veda la magnifica invenzione dei quadri di comando e controllo dei singoli destini, a metà strada tra tecnologici iPad e vecchi quaderni a righe dai margini violetti; oppure l’affascinante percorso all’interno di una mirabile e straniata New York, con porte che si aprono e si affacciano su altri concretissimi luoghi-nonluoghi, come in un metafisico gioco dell’oca; o ancora la dimora degli dei, tempio silente di lussuosa asetticità aziendale, secondo canoni d’arredo e di decoro anni trenta.
Un film che deve qualche cosa anche ai fratelli Wachowski di Matrix (1999), non tanto per gli effetti speciali - là attribuibili in particolare alla tecnica del "bullet time" - quanto per la ripresa di temi "filosofici"come i concetti di scelta e di destino. Non abbastanza autonomo da reggersi fino in fondo sulle proprie gambe, ma comunque apprezzabile negli abbrivi della stagione estiva, in particolare da coloro che ammirano da lontano - con questo caldo - i copricapi della Borsalino.
Tags: Emily Blunt, fantascienza, George Nolfi, I guardiani del destino, Marinella Doriguzzi Bozzo, Matt Damon, Philip K Dick, recensione, Source Code,
I GUARDIANI DEL DESTINO di George Nolfi, Usa 2011, 106 m
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