Nella Livorno della ricostruzione, qualcuno erge palazzi e costruisce strade e qualcun altro va a fondo, per recuperare quello che i bombardamenti hanno fatto precipitare in mare. Il palombaro Scintilla, Andrea Gambuzza, è protagonista e autore (insieme a Gabriele Benucci) di Testa di Rame, una scrittura drammaturgica vernacolare tanto rara da essere preziosa
di Igor Vazzaz
foto di Francesca Nicolosi
Drammaturgia: croce e delizia del nostro teatro, d’una storia lunga, lunghissima, retta quasi esclusivamente sull’arte d’attore, sulla guittezza, quella furberia scenica che non è mera risorsa d’estemporaneo geniaccio, quanto sapere tecnico (fisico, corporeo, prim’ancora che teorico), bagaglio di risorse incarnate nel gesto più e meglio che nel pensiero. Va da sé che, in un panorama alla perenne cerca di pièce, così assetato di autori da gridare al miracolo non appena qualcuno indovini tre testi decenti in fila e così storicamente incentrato sull’attorialità, assistere a uno spettacolo gustoso, ben scritto, parimenti costruito e discretamente recitato, rappresenta sempre una sorpresa assai gradevole. Non gridiamo al capolavoro, e ne siamo persino felici per i realizzatori: sussurriamo, piuttosto, al bel lavoro, che ne può, anzi ne deve, presupporre altri, molti altri.
Livorno 1945: città da ricostruire in un paese da ricostruire per un’umanità da ricostruire. Alla rinascita non contribuisce solo chi tira su nuove case, palazzi, fabbriche (polo industriale e siderurgico, la città dei Quattro Mori è stata più volte oggetto di tremendi raid di parte alleata, nonché d’occupazione nazista), ma pure chi s’immerge in mare, alla bell’e meglio, indossando quella testa di rame che dà il titolo allo spettacolo e designa il casco dei palombari impegnati nel ricupero dei tesori, veri o presunti, che la pioggia di fuoco ha precipitati sui fondali al largo della città. Scintilla (Andrea Gambuzza, coautore del testo assieme a Gabriele Benucci) è un sommozzatore autonomo: proletario, rustico, bloccato in una caserma della finanza a seguito di un’operazione non andata a buon fine. Scena sgombra, gioco di mera evocazione: solo una testa di rame, sospesa sulla sinistra, e alcuni scatoloni non si sa se di legno o cartone al centro.
Due storie separate eppure unite, snodate su altrettanti apparenti dialoghi paralleli, secondo una strategia che ricorda l’Eduardo di Questi fantasmi!, giacché i personaggi, nel rivolgersi ai rispettivi interlocutori, parlano direttamente al pubblico e creano una sottile trama di giochi intorno e oltre la quarta parete. La platea è spazio vivido dell’azione, personaggio anch’essa, sovrapposizione d’istanze nell’apertura squadernata del dialogo cui corrisponde, in senso sonoro e fisico (la direzione della voce e dello sguardo dell’interprete), l’apertura del dramma.
Il palleggio tra Gambuzza e Di Luca (bravissima, recitazione mossa, mai fuori misura, al punto da permettersi un’uscita dal personaggio per redarguire un fotografo imprudente senza che il pubblico avverta la frattura, una finezza da applausi) è calibrato su stacchi puntuali, vivace e continuo alternarsi di piani sino alla fusione finale. Il tutto s’appoggia sul vernacolo livornese, ultimo (apparente) avamposto d’una toscanità che, a dire il vero, toscana non è: città giovane, Livorno, di fatto esclusa dallo storico plesso di rivendicazioni campanilistiche d’origine medievale che sta alla base della vera identità regionale. Non di meno, grazie al Vernacoliere, al mai troppo apprezzato Bobo Rondelli, ai film di Virzì (e Testa di rame, in bene, ci ricorda certe gustose fiabe minime ritratte nei film del cineasta labronico), la città portuale (e dei portuali) si è negli ultimi anni ritagliata uno spazio significativo anche nell’immaginario nazionale.
Applausi, applausi convinti per un allestimento apprezzabile per la grazia, diremmo l’amore, con cui è stato scritto e portato in scena, anche al netto di qualche minima sfasatura d’interpretazione, in quello che è un esempio minuto di drammaturgia possibile, senza necessità di avvitarsi forzatamente sull’attore. Senza gridare al miracolo, si riconosca la bravura di questi artisti, nella speranza che un sistema dello spettacolo asfittico e colpevole (il gioco dello scaricabarile e del piagnisteo a nastro continuo ci ha davvero stancato oltre che infastidito oltre misura) non riesca nell’intento di strozzarli, disincentivarli, frustrarli. Purtroppo, non ci sorprenderemmo.
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Testa di rame, di Gabriele Benucci e Andrea Gambuzza, regia di Omar Elerian
Locandina: Stefano Pilato, elementi scenografici; Giorgio De Santis, ambienti sonori; Maria Cristina Fresia, disegno luci; Adelia Apostolico, costumi; Emidio Bosco, maschere; produzione Orto degli Ananassi
Prossimamente: 21-22 ottobre, Livorno, Centro Culturale Vertigo; 8-11 novembre, Roma, Teatro Accento
Tipico errore su Livorno: il celebre (e toscanissimo) detto "Meglio un morto in casa che un pisano all’uscio" non è livornese, bensì lucchese e risale all’epoca dell’acerrima inimicizia, sfociata in confronti militari, tra le due città; quello che non si ricorda mai è la meravigliosa (e altrettanto toscanissima) replica pisana a simile augurio: "Dio t’accontenti".
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