L'attore (e regista) napoletano più in vista del momento si confronta autorevolmente con il grande drammaturgo suo concittadino. Campo di gioco Le Voci Dentro, un testo scritto di getto nel'immediato dopoguerra a scandagliare impietosamente le crepe che incrinano la pace famigliare
di Sergio Buttiglieri
Toni Servillo ha fatto centro anche questa volta. E’ riuscito a rileggere Eduardo De Filippo, trovando la giusta misura per restituircelo senza ingabbiarlo nelle modalità della pura commedia dialettale. In un tempo in cui il teatro è spesso una elegante routine, un luogo per ascoltare drammi che non ci riguardano e non trasmettono niente che non sia, per dirla alla Ottieri, “una speciale impegnativa deprimente noia teatrale”.
L'attore e regista partenopeo invece ha letteralmente riscoperto questa fulminante pièce scritta, poco dopo la Seconda Guerra Mondiale, in sole 17 ore, e ancora in grado di raccontarci tutto il crudele cinismo che cova dentro la famiglia. Sa ancora decomporre i fragili equilibri che ci ostiniamo a tenere in piedi, mostrandoci - con l’ausilio del sogno di Calderon trasportato nei bassi - una spietata visione della falsità su cui si fonda il nucleo fondante della società tutta.
Servillo si muove sul palcoscenico con la stessa proverbiale asciuttezza di Eduardo, e dirige come un grande maestro la sua compagnia, affiatata più che mai, facendoci scoprire in veste d'attore anche il fratello Peppe, cantante degli Avion Travel e qui nella parte dell'alter ego del protagonista, portatore delle sue “voci di dentro”. Il parallelo con Eduardo è perfetto, dato che nel ‘48 recitò personalmente questa stessa commedia assieme a Peppino. Da artista dei silenzi, aveva un suo modo di tacere, di fare le pause, di pronunciare le battute con una vena malinconica, quasi in differita col suo incedere in scena, che Servillo sa restituire magnificamente arrivando a mostrarci di nuovo la disarmante semplicità dei suoi mezzi: quando raggiungono questi livelli di profondità, diceva Nicola Chiaromonte, confinano con l’assoluto.
Ennio Flaiano, appassionato spettatore di Eduardo, aveva già da tempo intuito che il suo era un teatro agli antipodi della banale commedia dialettale, pregno com’è di istanze cechoviane.
E proprio Flaiano nel ’65 puntualizzava il fatto che in generale da noi gli scrittori non sono propensi a lavorare per il teatro, mancando le premesse essenziali: un linguaggio e una società. Pertanto una commedia italiana che non sia in dialetto, ha sempre l’aria di essere stata tradotta dall’inglese o dall’americano. E i pochi drammaturghi nostrani scrivevano in un "italiese" che non si parla nella vita e neppure nei romanzi. L’unico che non scrivesse in italiese, secondo Flaiano, era Eduardo De Filippo, ed è proprio per questo che lo considerava l’unico nome del teatro contemporaneo.
La scenografia essenziale, mai veramente mimetica né del tutto naturalistica - proprio come la amava Eduardo - ha bisogno solo di un tavolo e due sedie, dematerializzate da un bianco abbagliante che avvolge anche tutto il palcoscenico. Ad un certo punto, da dietro una garza di trasfigurazione onirica, traspaiono totem di seggiole impilate: materiale necessario per gli eventi di cui si occupano i fratelli protagonisti in quanto noleggiatori sedie e decoratori di feste popolari, ma anche metafore dell’affastellarsi di voci interiori che rendono confuso il nostro pensiero, e ingarbugliano il nodo dei dubbi entro cui imprigioniamo le nostre vite.
Nelle commedie di Eduardo c’è sempre un portiere assennato che ha una memoria più limpida della nostra, che ha smesso di sognare da tempo, sicuro della sua vita, del suo ruolo, al contrario di noi, che non capiamo mai se quello che sogniamo può diventare solo realtà o solo un grande sbaglio; o se quello che percepiamo di "sbagliato” negli altri sia veramente così o se siamo sbagliati noi, piuttosto. Quello di Eduardo è un elogio ai non allineati, condensato nella figura di Zi' Nicola che, ci svela l'autore stesso, deriva da uno scritto di Ferdinando Russo, pieno di quella tristezza propria di un popolo che "adopera i fuochi d’artificio per regalarsi un sole notturno". Un personaggio ai margini eppure centrale, vera coscienza della destabilizzata comunità in scena, uno che ha smesso di parlare, (parlare è inutile, dato che siamo sordi: la vera saggezza è muta), schifato dei nostri mezzucci, convinto che al massimo siamo degni di essere sputacchiati dall’alto della sua torre di guardia. Noi tutti intenti a stare in scena trascrivendo tuttalpiù le nostre meschine mezze verità grazie ai misteriosi “scippetielli” stenografici che usa Elvira, figlia di Pasquale Cimmaruta, esausto capofamiglia e esponente di questa derelitta umanità in cui tutti sospettano di tutti.
Con questo spettacolo, c'è da scommetterci, Servillo rimarrà in tournèe centinaia di sere, replicando l’enorme successo che ebbe Sabato Domenica e Lunedì messo in scena nel 2002, straordinaria radiografia della crisi della famiglia italiana che Eduardo scrisse profeticamente nel 1959, in pieno boom economico.
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Le voci dentro, di Eduardo De Filippo, regia di Toni Servillo
Il resto della locandina: scene Lino Fiorito, costumi Ortensia De Francesco, luci Cesare Accetta, suono Daghi Rondanini, assistente alla regia Costanza Boccardi, coproduzione Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa, Teatro di Roma, Teatri Uniti. In collaborazione con Théâtre du Gymnase, Marseille in occasione di Marseille Provence 2013 Capitale Européenne de la Culture
Prossimamente: al Piccolo Teatro Grassi fino al 28 aprile; a Roma dal 7 al 31 maggio al teatro Argentina
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