La brava Maddalena Crippa riporta in scena il genio del teatro canzone. L'attrice cerca di smarcarsi dall'inarrivabile modello e ci riesce meglio di altri: ma non basta
di Igor Vazzaz
A scanso di fraintendimenti, ribadiamo quel che abbiamo detto altre volte: il teatro è il regno della reintepretazione, della reinvenzione, della resurrezione di testi, corpi e rapporti di forze un tempo cuciti addosso ad altri corpi, altre voci, altri attori. Quello di Gaber, a nostro avviso, era ed è tuttora grande teatro, originale, urgente e, benché legato a doppio filo con la realtà dell’epoca in cui veniva concepito, ancora in grado di parlare agli spettatori.
Questo non implica che le ultime rivisitazioni abbiano colto nel segno, tutt’altro: pensiamo a Giulio Casale, Neri Marcorè, artisti che, per una ragione o per l’altra, si sono infranti contro il simulacro del primo interprete, fallendo, al di là di bravura e applausi. Il punto, però, non è, come si potrebbe pensare banalmente, che Gaber possa venire interpretato solo da se stesso: idea semplicistica, ingiusta, pure nei confronti d’una scrittura autentica, ricca di sponde e piegature ancora da esplorare del tutto. La stessa accusa, del resto, era rivolta a Dario Fo, salvo poi accorgersi che, già negli anni Settanta, i testi del futuro Nobel erano allestiti ogni sera in lingue e luoghi sparsi in tutto il mondo. Per questo motivo, innanzitutto, siamo incuriositi e ben disposti nei confronti di Maddalena Crippa, attrice di gran curriculum e indubbia statura, che porta in scena E pensare che c’era il pensiero.
Una donna nei panni di G, bella idea: vuoi vedere che uno scarto fisico tanto netto non garantisca il successo a un’operazione che ha visto naufragare quotati colleghi maschi? La scelta del testo, peraltro, conferma personalità: non un greatest hit come per Marcorè né uno spettacolo mitico come il Polli d’allevamento riproposto da Casale, bensì un lavoro del 1994, il primo inedito degli anni Novanta da parte del duo Gaber–Luporini. Testi insidiosi, non facili, che il cantattore lombardo portava sapientemente, sfruttando quell’inconfondibile vocalità piena, intensa, e la caratteristica flessuosità corvina d’una corporeità sghemba e perfetta.
Al centro dello spettacolo, una riflessione ironica e amara sull’individuo post–riflusso, l’enigma rappresentato da un poco onorevole rientro all’ordine e la non totale rassegnazione nei confronti d’una realtà ormai immutabile. Mi fa male il mondo, urlo di dolore tra ironia e frustrazione, refrain d’uno show cui si sovrappongono dubbi viperini (Destra-Sinistra), vecchi temi e una serie d’acute osservazioni sulle menzogne che ci raccontiamo. Paradossale e beffarda, l’utopica soluzione alle trappole della nostra cattiva coscienza coincide, per Gaber, con un egoismo "antico e sano", ma, per una volta, autentico.
Si inizia con La sedia da spostare: un fascio luminoso illumina dall’alto una scranna in legno e due voci identiche si fronteggiano dai lati opposti della scena. È Gaber, ma non è lui. Il timbro è femminile, la calata lombarda, le frasi, le ricordiamo a memoria, sono le stesse, ma i tempi, le esitazioni sono nuove, differenti. Ecco la musica: un piano sulla sinistra suona, dal vivo, su una base registrata. Entra l’attrice, microfono in mano, vestito nero, anfibi ai piedi: Mi fa male il mondo. Si agita, percorre il palco più volte, accompagnata da tre coriste coi corpi in ombra, sullo sfondo bianco. L’amalgama sonoro è inedito, il tempo più rapido, troppo, si perde qualcosa.
L’idea, confermata nel corso della performance, è che l’attrice ingaggi un costante corpo a corpo con il modello originale: Maddalena si smarca, dribblando melodie, aggiungendo acuti, svariando sulla partitura. Ha ragione: non può fare Gaber, e di questo le siamo grati, a prescindere dal risultato. Non va male, infatti, su certi soffiati, quando la modulazione s’abbassa, trovando una propria intensità. E se nei monologhi si salva da attrice, pur non convincendo appieno, le canzoni risultano la parte più critica: l’impiego dei cori non è malvagio, ma la miscela tra suoni live e registrati è telefonata, insufficiente, il canto spesso impreciso, a fronte d’un modello che più passano gli anni e più appare insuperato. La strategia, scientemente adottata, degli scarti nell’esecuzione e di lavorare d’accumulo sulla gestualità, se, da un lato, rappresenta uno sforzo encomiabile, dall’altro, lascia sin troppe perplessità.
Monologhi e brani musicali s’inseguono, con qualche anomalia rispetto al testo adottato: ecco Il dilemma, bella canzone da Anni affollati (1981), iniziata con un recitativo, poco dopo, Qualcuno era comunista, monologo del 1991, in un gioco di ricomposizione lecito, ma non provvisto di una sufficiente congruenza. E, infatti, manca quella Canzone della non appartenenza che della messinscena originale rappresenta la chiave, lo spiraglio, la timida soluzione proposta da Gaber. Le si preferisce, invece, L’attesa, sempre da Anni affollati, anch’essa riproposta in forma recitativa.
Lo spettacolo purtroppo non funziona, non decolla: non per questioni d’ordine filologico teoricamente trascurabili, ma perché mancante d’una coerenza estetica che dev’essere il principe cardine di qualsiasi allestimento scenico. Riportare in scena Gaber, ormai s’è capito, non è uno scherzo: occorre bravura nel canto, nella recitazione, nonché quell’indescrivibile autorità artistica che sembra davvero la qualità più forte, e ancora poco indagata, del compianto Gaberscik. E spiace che a rimetterci sia, tutto sommato, una brava attrice, protagonista, per una volta, di uno spettacolo comunque non ruffiano, non furbetto e, alla fin fine, pure onesto.
Tags: e pensare che c'era il pensiero, emanuela giordano, giorgio gaber, Igor Vazzaz, maddalena crippa, recensione, sandro luporini, teatro canzone,
E pensare che c’era il pensiero, di Giorgio Gaber e Sandro Luporini, con Maddalena Crippa, regia di Emanuela Giordano
Il resto della locandina: Massimiliano Gagliardi, pianoforte e arrangiamenti; Chiara Calderale, Miriam Longo e Valeria Svizzeri, coriste; produzione Tieffe Teatro Milano Stabile di Innovazione in collaborazione con la Fondazione Giorgio Gaber
Prossimamente: 8/3, Cesano Boscone (Mi); 12-13/3, Brescia, T.Sociale; 13-14/3, Savona, Chiabrera Sociale; 19-20/3. Jesi, Pergolesi
Indicativo/1: che il pubblico non "prenda" il finale dello spettacolo e l’attrice debba, con strizzata d’occhio furbetta, segnalarlo agli spettatori
Indicativo/2: che le parti migliori siano, a sorpresa, i due bis canori, con un pot-pourri gaberiano a cappella invero godibile
E pensare che c’era il pensiero in cd: due versioni, una registrata all’Alfieri di Torino, nel 1994, e l’altra al Regio di Parma, a fine 1995
Chiusa della Canzone della non appartenenza: "E non ci salva l'idea dell'uguaglianza/né l'altruismo o l'inutile pietà/ma un egoismo antico e sano/di chi non sa nemmeno/che fa del bene a sé e all'umanità"
Commenti
Che bel modo di
Che bel modo di pensare,esprimere,documentare e argomentare.Leggo sempre con grande piacere.
Invia nuovo commento