La storia di Miele, angelo della morte per tutti i malati che, clandestinamente, scelgono di mettere fine alle proprie sofferenze, e dell'ingegnere Grimaldi, uomo lucido eppure stanco della vita. A Nome Tuo, da un racconto di Mauro Covacich diretto da Roberto Recchia, è una pièce forse difficile ma senz'altro rivelatrice
di Sergio Buttiglieri
Il solo trovarlo è un’impresa. Devi litigare col navigatore e scegliere di non ascoltarlo più, altrimenti non ci arriverai mai: parlo del Teatro Pim Off, uno spazio teatrale vitale per l'estrema periferia sud di Milano, che ha ospitato una Prima Nazionale che non consentiva una reazione indifferente o annoiata. A Nome Tuo è un lavoro tratto dal romanzo di Mauro Covacich e recitato con grande intensità da una Cinzia Spanò particolarmente ispirata, che ne ha curato personalmente anche l’adattamento per proporlo a Roberto Recchia con la determinazione che fa la differenza (come racconterà il regista stesso a fine rappresentazione), e la ferma convinzione che fosse il testo giusto da portare in scena in questi giorni.
Il tema - la morte - non è esattamente invitante, e può spingere a chiedersi se è il caso di andare a teatro per rimestare tali problematiche, considerando che la vita è già così dura di per sè, nel nostro 2013 postmontiano, e forse ancora una volta, incredibilmente, preberlusconiano. Di quest’ultimo tornano alla mente le imbarazzanti dichiarazioni su Eluana Englaro quando sul palcoscenico appare Miele: così si chiama la protagonista dalla doppia faccia che accompagna al fine vita le persone che decidono di smettere di soffrire e di non proseguire con le terapie mediche.
Miele studia a Torino, o almeno così racconta al suo uomo che ha già una famiglia, e con il quale intrattiene un rapporto clandestino piuttosto complicato che alla fine la porterà ad abbandonarlo: in realtà i suoi viaggi hanno come destinazione il Messico, dove è più semplice procurarsi le medicine che le servono per il suo vero mestiere, clandestino anch’esso, perché in Italia e in molti altri paesi, la morte è considerata più un affare della medicina che non una libera scelta. Miele, orfana da tempo di madre, morta prematuramente di tumore, ha un padre che assiste il nonno novantenne in preda ad una demenza galoppante: entrambi si mostrano insofferenti nei confronti della badante filippina “malata”, dice lei, di “gerontologia concentrazionaria.”
Una vita complicata, quella di Miele, dentro la semplice ma efficace scenografia ideata da Romeo Liccardo: da una serie di telai semitrasparenti e rotanti su cui vengono proiettati video riguardanti il privato della protagonista, i suoi incontri dolorosi, corredati da quelle onde marine in cui ama avventurarsi, nuotando e rischiando anche di annegare, ma destinate a infrangersi sulla sabbia della sua vita rimettendola ogni volta “in ordine”.
Ad un certo punto le cose si complicano ulteriormente: incontra infatti Grimaldi, un ingegnere in pensione, efficacemente interpretato da Umberto Ceriani, che non è un ammalato grave, né depresso, ma semplicemente un uomo stufo di esistere, soddisfatto di tutto quello che ha realizzato ma senza voglia di proseguire oltre, e che racconta questo stato d'animo con una spiazzante tranquillità che destabilizza la protagonista.
Convinta di avere a che fare sempre con delle persone che non aspettano altro che la morte, Miele comprende che deve smettere di "giocare con loro"... Di fronte a una persona che ti ribadisce il fatto che non occorre essere malati terminali per avere il diritto di scegliere, si sente un'assassina e non se la sente di proseguire nel suo lavoro. Eppure lo incontra di nuovo, lo ascolta, ci ripensa. Resta affascinata da lui, con tutti i suoi libri che gli sono venuti a noia, con il suo amato Virgilio, “un provinciale imbranato che ha saputo condensare in 12 libri quello che neanche Omero ha saputo fare nei suoi 48 canti e che in più, essendo un eterno insoddisfatto, ha tentato di bruciare tutta la sua opera prima di morire. “
La sua insofferenza si rivolge anche al teatro: non sopporta più di ritrovarvi un pubblico eternamente dissociato da ciò che sta vedendo, intento ad officiare con i fuochi fatui azzurrini dei loro telefonini il rito straniante del dover essere sempre altrove con la testa. Ama la Passione Secondo Matteo di Bach, a differenza di lei che ama la "musica per aeroporti" di Brian Eno, lui è in fondo un uomo pieno di vita anche se si è ormai stancato di vivere. Cita Seneca - ”Il destino guida chi lo accetta e trascina chi è riluttante“ - e ricorda come gli stoici ritenessero il suicidio la scelta più giusta, ma nonostante tutto sprizza vita da ogni poro, anche quando continua a chiederle informazioni su quale sia il metodo migliore per farla finita.
Gli stoici dicevano, ci ricorda ancora Grimaldi, che la relazione tra l’uomo e l’universo è la stessa di un cane legato ad un carro. Egli ha due possibilità: seguire la marcia del carro o resisterle: la strada sarà la stessa, ma adeguandosi all’andatura del carro, il cane procederà senza dolore, e quando non sarà più in grado di stare al passo col carro, piuttosto che farsi trascinare nella polvere, potrà gettarsi fra le ruote. Grimaldi smaschera Miele rivelandole che lei fa quel lavoro per aiutare se stessa e non gli altri, la accusa di essere una panteista da piccolo cabotaggio, eppure non vede l’ora di reincontrarla.
Una inaspettata storia d’amore tra due persone apparentemente lontane dall'amore, che non ha bisogno di pietismi per farci riflettere sul tema del libero arbitrio, ma che proprio sulla scomoda e irrazionale gratuità del gesto di Grimaldi fonda tale concetto, con il risultato di scombussolare le certezze con cui eravamo entrati in sala.
Tags: A Nome tuo, Cinzia Spanò, Mauro Covacich, recensione, Roberto Recchia, Sergio Buttiglieri, Teatro Pim Off,
A Nome Tuo, di Mauro Covacich, regia di Roberto Recchia
Il Film: di prossima uscita una pellicola ispirata allo stesso testo di Covacich, diretta e interpretata da Valeria Golino
Info: nuove date estive sul sito del Teatro Pim Off
Commenti
Invia nuovo commento