Il direttore di Giudizio Universale propone alcune regole di base per i dibattiti politici in televisione: brevità di interventi, nessuna interruzione della controparte, controllo dei dati utilizzati. Perché chi va alle urne sappia davvero come scegliere
di Remo Bassetti
Lo so che “Yes, we can” è già passato di moda. Eppure, è vero: possiamo, potremmo. Con poche elementari regole, potremmo rendere le trasmissioni politiche con gli ospiti dei momenti di vera informazione piuttosto che quell’indegna gazzarra che sono.
E lo sono tutte, perché non dipende nemmeno dai conduttori ma dal mandato che ciascun partecipante ha ricevuto: impedire agli avversari di parlare, interromperli, rider loro in faccia; non concedere mai, nemmeno per un attimo, che ci sia un fondamento in quello che l’altro dice piuttosto che una disonesta faziosità; non esitare a snocciolare dati falsi per supportare la propria tesi. In verità basterebbe, in primo luogo, giocare sui microfoni, togliendo anche l’audio, a servizio di poche regole fondamentali: interventi non più lunghi di cinque minuti (qualcuno dirà che sono già troppi. Ma qui non si tratta di adattarsi ai ritmi televisivi, bensì di dare il tempo di organizzare un discorso invece che uno slogan), nessuna interruzione, repliche secche e brevi.
Poi c’è la questione dei dati: la più clamorosa vittima di sequestro da parte della barbarie politica contemporanea è la matematica, e accade regolarmente che l’ascoltatore venga sottoposto a un confronto del tipo: “Il Pil è diminuito” “No, il Pil è aumentato!”, “La disoccupazione è in aumento” “Macchè, ci sono duecentomila posti di lavoro in più”. Qui siamo oltre la disonestà intellettuale. Sarebbe dunque indispensabile che in prima serata, nella giornata successiva a quella della trasmissione, un giornalista, previo approfondimenti, riportasse i dati corretti. Anzi, il mio sogno sarebbe che questo spazio supplementare si chiamasse Io sono un pagliaccio e che della manipolazione delle cifre o dell’ignoranza fosse tenuto a dare conto proprio colui che ne è colpevole, pena la sospensione a tempo indeterminato dai programmi televisivi.
Analoga sospensione dovrebbe discendere dalla violazione delle regole elementari del bon ton. E’ stata un’impressionante immagine di degrado quella del ministro La Russa che, rinunciando a qualsiasi contraddittorio ragionevole, andava avanti per minuti da Santoro a sovrapporre la sua voce a quella di un universitario gridandogli ininterrottamente: “Vigliacco”. E forse è stato ancora peggio che nessuno lo prendesse per il bavero e gli spiegasse: “Ma lo capisci che se questo è il modello che offre un ministro della Repubblica è veramente il minimo che quelli là fuori usino il randello?”.
Si dovrebbero magari anche varare, su questa ideale rete pubblica, delle giornate monotematiche sui grandi temi della politica, che sappiano andare oltre il corto respiro della contesa nazionale: certo, usando le capacità tecnologiche della moderna comunicazione ma anche avendo il coraggio di far capire che a volte, per essere informati, è necessario sciropparsi un barboso docente universitario piuttosto che sentire cosa ne pensa Belén Rodriguez.
Questo è soltanto un aspetto, va da sé. Non dico che ci sia solo la politica. Dico che oggi la politica non c’è, perché quel teatrino allestito quotidianamente non somiglia più neppure alla sua caricatura, e questo significa che milioni di persone vanno a votare senza avere nessuna consapevolezza, orientamento, informazione: e magari ridono pure soddisfatti. Poi però ci vanno alle urne, e il loro voto conta come quello degli altri. A questo punto, a costo di passare per reazionario, non mi va più bene. E per mantenere il diritto di voto esigo che sia introdotto il decoder.
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