Alla fine c'è caduto anche lui. Il bassista sopraffino, il sodale più amato di Miles Davis ha voluto togliersi lo sfizio di suonare accompagnato da un'orchestra. Gli effetti dello sventurato incontro sono immortalati nel disco dal vivo A night in Monte-Carlo: tra le vittime, anche Herbie Hancock e Billie Holiday
di Dario De Marco
Vorremmo sbagliarci, ma nella folla di anniversari e celebrazioni che ci assedia, in pochi, anche tra gli specializzati, hanno ricordato i quarant'anni di Atom heart mother. Il disco rappresentò per i Pink Floyd l'addio al rock psichedelico e spaziale, a partire dalla copertina con la mucca, un'immagine volutamente anti-lisergica e affatto ordinaria. Musicalmente nel 1970 il quartetto cercava nuove strade, e le trovò nell'orchestra classica (il compositore Ron Geesin diresse, arrangiò, e suggerì anche qualche melodia). Sull'opera in sé la critica è divisa: alcuni la trovano meravigliosa grazie all'orchestra, altri nonostante l'orchestra. Indiscutibilmente però l'album rappresentò un debutto, quello del rock sinfonico.
Da allora di schifezze orchestrali ne sono state prodotte a bizzeffe, a cominciare dagli stessi Floyd, ma anche a loro danno (certe versioni di Comfortably numb per sessanta archi purtroppo non si dimenticano). Nel rock, certo, ma pure nel jazz, altra musica nata su strumenti scalcagnati, fatta di suoni scabri, e perciò mal adattabile all'orchestra ottocentesca. Prendiamo questo A night in Monte-Carlo, di Marcus Miller, dal vivo con L'Orchestre Philarmonique de Monte-Carlo.
Marcus Miller è un bassista elettrico prodigioso, tipo Jaco Pastorius, quelli che li senti e ti sembra che suonino un altro strumento, completamente diverso dal pezzo di legno su cui ti sbatti per imitare i giri funky di James Brown. Inoltre è una persona vitale, un grande organizzatore, un ragazzo simpatico: quel brutto muso di Miles Davis, che Miller accompagnò e produsse negli ultimi dischi, raccontò che “Marcus è l'unico che è riuscito a farmi lavorare per ore sullo stesso assolo, senza farmi incazzare e anzi facendomi ridere a crepapelle”. Ma musicalmente Miller sta sempre in bilico sul bordo del kitsch.
In questo disco, a parte l'orchestrona, lo affianca Roy Hargrove, che con il collega di tromba Wynton Marsalis è il più fulgido esponente di quella Vandea jazzistica chiamata new bop, gente di una tecnica strabiliante che suona come se fossimo a fine anni '50. C'è anche un cantante, Raul Midòn dal New Mexico, a giudicare dalla foto del booklet una specie di Celentano con tanto di cappello chitarra ed occhiali. Ma veniamo alla musica.
In Blast! sembra di sentire appunto le glitterate elettroniche dell'ultimo Davis, solo con gli archi al posto del synth (ma non era stato inventato apposta per risparmiare sui maestri d'orchestra?). Segue So what, omaggio davisiano ma del periodo antico: purtroppo la versione è non meno letterale che noiosa, anni luce distante dalla cover-capolavoro di Gil Evans, che ignorò il semplice tema originale per trasformare in nucleo tematico cantabile l'assolo di Miles.
Poi c'è State of mind, che è il più noto hit di Midòn (capito come siamo messi?), che diremmo plagiata da Chillo è nu buono guaglione di Pino Daniele, se non fossimo sicuri che nel south degli States sono poco attenti ad ascoltare quello che viene dal sud dell'Italia. La canzone simbolo del disco è I loves you Porgy: l'origine gershwiniana e da musical del brano giustificherebbe l'orchestra più che altrove, e in effetti in certi passaggi si apprezza il suono scuro del basso di Miller adagiato sui morbidi tappeti degli archi, ma subito la cosa gli sfugge di mano e diventa un cozzare di slappatone e patetiche sviolinate.
Amandla, tratto dall'omonimo disco di Miles Davis del 1998, vede Hargrove muoversi sulle orme del mito: lui va dieci volte più veloce, ma un po' come Achille non riuscirà mai a raggiungerlo. E subito dopo la ballad I'm glad there is you, il suddetto steccato del kitsch non è scavalcato ma sfondato a cannonate: c'è il medley O mio babbino caro / Mas que nada. Una roba che promette le peggio pavarottate, in realtà poi l'aria di Puccini è ridotta a intro strumentale.
Il live si chiude con un pezzo in studio. Miller scrive che l'esperienza con l'orchestra gli è piaciuta proprio assai, al punto che ha deciso di rifarlo a casa: ha suonato tutto lui, tranne il pianoforte affidato all'amico Herbie Hancock (un altro che ha diviso la sua carriera tra magnifiche session e solenni porcate). Vittima sacrificale, la monumentale Strange fruit di Billie Holiday. E qui veramente la voce ci viene meno.
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